Undici milioni di italiani, più o meno uno su cinque, ogni giorno assumono psicofarmaci. Un dato figlio “della mancanza di futuro” ha detto Matteo Salvini al termine dell’incontro con il Presidente Sergio Mattarella buttandola – come si dice – in politica. Ma anche un dato così clamoroso che fa di noi una sorta di primatisti mondiali della depressione. Partiamo dai numeri che sono strabilianti. Un italiano su cinque, abbiamo detto, assume quotidianamente antidepressivi. Una cifra che rapportata alla popolazione italiana si traduce in un 20% di persone che usano questo tipo di farmaci contro una media mondiale che è del 4.4%.

I costi poi legati al trattamento della salute mentale sono addirittura “emergenziali” secondo un rapporto dell’Unione Europea (che comunque ha una situazione media migliore della nostra) con 240 miliardi di euro spesi all’anno. “Le malattie mentali hanno causato un aumento di fenomeni come l’assenteismo e il pre-pensionamento. Essere precari al lavoro comporta il rischio di ammalarsi di depressione. Tutto questo diventa un problema non soltanto per i lavoratori, ma anche per le aziende che perdono produttività”, spiega Francesco Moscone, economista della sanità alla Brunel University di Londra.

In Italia gli antidepressivi rappresentano già una delle principali componenti della spesa farmaceutica pubblica: 800 milioni di euro annui. Ma possibile che in Italia ci sia un così alto numero di persone depresse? Certo, sono passati anni difficili dal punto di vista economico e secondo più d’uno ci sarebbero molte ragioni per essere preoccupati. Ma nulla di tutto questo giustifica o sembra poter giustificare quel 20% a 4%. Salvini ha citato il dato tirando comprensibilmente acqua al suo mulino e dicendo che l’uso degli psicofarmaci nasce dalla mancanza di prospettive e quindi dalla mancanza di un lavoro stabile, e quindi dalle politiche di austerity che la maggioranza giallo-verde vuole salutare per “lasciare un Paese migliore a nostri figli”.

Non ha nemmeno tutti i torti il segretario leghista, anche se è tutta da dimostrare la bontà della sua ricetta per cambiare la cose. Non ha tutti torti perché è vero che i ritmi e la società di oggi fanno in fretta a mettere nell’angolo e a far sentire esclusi e la precarietà e l’incertezza sul futuro certo non aiutano in un simile contesto. Ma non è tutto qui. Gli stessi ritmi frenetici che possono fagocitare inducono spesso chi è depresso a cercare le soluzioni
apparentemente più veloci, mettendo la terapia tra le ultime opzioni possibili. A questa si preferiscono santoni e guru a seconda delle mode del momento ma anche i farmaci. Che oltretutto hanno l’incredibile vantaggio di essere impersonali e non costringere il ‘depresso’ ad affrontare direttamente il suo problema.

“La malattia mentale non si cura in poco tempo”, riflette Paolo Migone, direttore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane. “I farmaci da soli fanno molto poco, soprattutto nella cura della depressione, ma le case farmaceutiche che li producono controllano le riviste specializzate, organizzano congressi, influenzano il mercato”. Chi poi sceglie la strada della terapia corre il rischio d’essere ostacolato invece che aiutato. “Un medico di famiglia con 1500 assistiti visita ogni anno da 45 a 75 pazienti depressi – spiega Silvana Galderisi, presidente dell’Associazione Europea di Psichiatria -. La diagnosi corretta viene formulata nel 40% dei casi e soltanto la metà di questi riceve un trattamento adeguato”.

Questo in un Paese dove ci sono 60 psicologi ogni 100,000 abitanti. Ancora un record: nel Regno Unito sono 23 e in Spagna 7. Un primato favorito dal fiorire di troppe scuole e indirizzi di laurea in psicologia, ben 370, con 61mila ragazzi iscritti. Troppi e difficili da raggiungere stando ai numeri forniti dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi: solo la metà degli oltre 100.000 iscritti versa i contributi alla cassa di previdenza. Ciò significa che il 50% degli psicoterapeuti italiani è disoccupato o sottoccupato, per un reddito medio
di 960 euro mensili.