Se c'è una data dalla quale l'economia argentina e il consenso politico al suo presidente Mauricio Macri hanno decisamente cambiato di segno è quella del 28 dicembre 2017. Quel giorno, il precedente governatore del Banco Central de la República Argentina (Bcra) Federico Sturzenegger – e il ministro del Tesoro argentino, Nicolás Dujovne, annunciavano che per il 2018 l'obiettivo di inflazione sarebbe stato più alto di quello programmato in precedenza: il 15 per cento contro il range 8-12 per cento indicato.

Anche nel 2017 l'inflazione era stata superiore all'intervallo programmato, il 21 per cento contro un obiettivo del 12-17 per cento; e l'incremento dei tassi al 28,75 per cento, deciso per contenerla, aveva ridotto la crescita economica, appena ritornata dopo la stagflazione
del 2016, e fatto perdere competitività al sistema (a causa di un apprezzamento del cambio reale). Tollerando un obiettivo di inflazione più elevato, e quindi riducendo i tassi di interesse (per due volte a inizio gennaio 2018), si pensava che la ripresa da poco iniziata potesse consolidarsi ulteriormente. Tutto questo però si è scontrato contro alcune debolezze che, con l'arrivo della nuova amministrazione, si sono sommate a quelle strutturali dell'economia argentina.

Le liberalizzazioni, l'apertura del sistema finanziario e una serie di riforme favorevoli al mercato, oltre alla composizione delle controversie con i cosiddetti “fondi avvoltoio” (che ancora detenevano i titoli andati in default nel 2002), erano stati annunciati come lo stimolo essenziale per attirare gli investimenti dall'estero che avrebbero modernizzato l'apparato produttivo del paese e migliorato la competitività argentina sui mercati internazionali. In realtà, gli investimenti provenienti dall'estero non sono andati a impiantare nuove aziende o a sviluppare quelle esistenti ma, come spesso avviene, sono stati investiti in titoli di stato (per la gran parte emessi in valuta estera) e nei cosiddetti Lebac – Las Letras del Banco Central – emessi dal Bcra.

I Lebac, titoli con scadenza a 35 giorni e denominati in pesos, sono stati il principale strumento utilizzato dalla banca centrale argentina per sterilizzare l'impatto che l'afflusso dei capitali esteri poteva generare sui prezzi interni. Dalla metà del 2016, con la stabilizzazione del rapporto di cambio con il dollaro, l'emissione di questi titoli ha permesso di intercettare parte dei risparmi degli argentini e dei capitali esteri che affluivano. Ma, proprio perché denominati in valuta locale, offrire un tasso di rendimento vantaggioso non è sufficiente affinché il rinnovo periodico sia garantito. Occorre che vi sia fiducia sulla stabilità del rapporto di cambio (soprattutto per chi dall'estero vuole investirci) e che le aspettative di inflazione siano sufficientemente ancorate al target.

Per questo la decisione del 28 dicembre 2017 può esser considerata un punto di volta. Anche a causa della riforma fiscale del presidente Trump, la liquidità in dollari tendeva infatti a ridursi e le aspettative sui tassi negli Usa erano al rialzo, così l'annuncio di una politica monetaria più espansiva di quella programmata ha immediatamente messo sotto pressione il cambio peso/dollaro, che tra dicembre 2017 e febbraio 2018 ha perso il 15 per cento del proprio valore. Da quel momento, con i Lebac che non offrivano più un rendimento così vantaggioso sia per gli investitori esteri, in termini di dollaro, che per gli argentini (il calo della valuta aveva accresciuto le aspettative di rialzo dell'inflazione), sono iniziati i disinvestimenti in massa, che nel mese di aprile hanno ridotto le riserve valutarie di oltre 5 miliardi di dollari.

Per contrastare i disinvestimenti e rendere più onerosa la speculazione sul peso, il Banco Central ha alzato per due volte i tassi di 300 punti base tra la fine di aprile e l'inizio di maggio. Dopodiché, sempre all'inizio di maggio, il governo ha annunciato nuovi provvedimenti fiscali di contenimento del deficit e un ulteriore rialzo dei tassi di 675 punti base. Anche queste misure non sono riuscite a calmare gli investitori, tanto che si è dovuto far ricorso alle risorse del Fondo monetario internazionale, con uno stand-by arrangement che ha fissato un memorandum di obiettivi riguardanti sia la politica fiscale che la politica monetaria degli anni a venire. L'accordo mette a disposizione complessivamente 50 miliardi di dollari, 15 dei quali erogati già a giugno e ha la finalità di coprire il servizio del debito estero fino al 2021 (figura 2) e placare i timori degli investitori nazionali ed esteri.

Ma la lettura del memorandum fa sorgere almeno tre dubbi. Un primo dubbio riguarda l'obiettivo di crescita fissato per il 2018 e il 2019. I recenti dati rilevano già gli effetti che i tassi reali più alti al mondo hanno sull'attività economica e fanno ipotizzare che, una volta varate le misure di consolidamento fiscale su cui il governo si è impegnato (taglio dei salari reali dei dipendenti pubblici, riduzione dei sussidi alle imprese e degli acquisiti di beni), gli obiettivi di crescita, fissati allo 0,4 per cento per quest'anno e all'1,5 per cento per il prossimo, si rivelino molto ottimistici.

Un secondo dubbio è relativo alla eliminazione dei Lebac. Senza strumenti alternativi di canalizzazione dei risparmi, la misura potrebbe amplificare la corsa degli argentini al dollaro, che in un paese afflitto da inflazione cronica storicamente rappresenta lo strumento privilegiato per la protezione dei risparmi.

Da ciò deriva poi il terzo dubbio, legato al mantenimento di un livello minimo di riserve al servizio del debito estero. Con i capitali esteri che hanno smesso di arrivare e gli argentini alla disperata ricerca di investimenti in dollari per sostituire i Lebac, l'impegno del governo argentino a non utilizzare riserve valutarie per stabilizzare il cambio potrebbe scaricarsi verso nuovi suoi deprezzamenti, nuovi incrementi dei prezzi e nuovi aumenti dei tassi d'interesse, avvitando definitivamente l'economia nella trappola stagflattiva e portare così nel medio termine all'impossibilità di far fronte al debito estero.

Il recente annuncio del presidente Macri di aver bisogno dei fondi Fmi più velocemente di quanto ipotizzato a giugno non ha fatto altro che rafforzare questi dubbi. Il rischio di un default stile 2002, anche se ancora lontano dato il più alto livello di riserve valutarie, potrebbe avvicinarsi molto velocemente.

Francesco Lenzi