Torna l'incubo spread in Italia. Ieri martedì 2 ottobre lo spread, che misura la differenza di rendimento tra i titoli italiani e il corrispettivo tedesco e soprattutto funziona da termometro sulla fiducia dei mercati che l’Italia sarà in grado di ripagare chi finanzia il suo debito, è tornato in zona rosso pericolo. Gli investitori lo hanno visto sugli schermi di Bloomberg spingersi fino a 303,7 punti base nel finale di seduta, per poi chiudere a 302,5 punti base (282 punti la chiusura dell’altro ieri).

Cosa significa tutto questo? Fino a undici miliardi in più: tale è il costo dell’impennata di ieri, per le finanze pubbliche e quindi per i contribuenti italiani. Una stangata che rischia di rimettere in discussione tutta l’impalcatura del Def, perché vanifica buona parte dello stimolo sulla crescita su cui la maggioranza conta di far leva per far scendere il debito nonostante l’aumento del deficit. Ultima a lanciare l’allarme è stata Goldman Sachs, con numeri che superano di gran lunga le stime degli ultimi mesi.

Con lo spread a questi livelli l’aggravio in spesa per interessi che l’Italia deve pagare è “modesto”, poco più di tre miliardi di euro, nel 2019. Ma mettendo insieme il rincaro da qui al 2021 (nell’ipotesi che lo spread resti a questi livelli) si arriva cumulativamente a oltre 20 miliardi, di cui cinque fra il 2018 e il 2019: se ne andrebbe in fumo un quarto dei 40 miliardi stimati per la manovra 2019. E’ fra i più duri degli scenari circolati di recente, perché riflette uno spread in zona 300, con un rendimento del Btp a due anni quasi raddoppiato in sole quattro sedute, all’1,37% di oggi da circa 0,75% della scorsa settimana.

E una Bce che, proprio mentre l’Italia affronta importanti scadenze di debito da rifinanziare (Bot e Btp per 12 miliardi ciascuno solo a ottobre), aiuterà sempre meno:
secondo Goldman, l’Eurotower, che ha comprato circa 360 miliardi di carta italiana col Quantitative easing, fermerà le macchine da gennaio. I reinvestimenti si limiteranno nel 2019 a 3-3,5 miliardi medi al mese contro emissioni del Tesoro sui 20 miliardi. Carlo Cottarelli, ex Fmi oggi a capo dell’Osservatorio conti pubblici, stima che se lo spread rimanesse a 300 punti base il costo aggiuntivo sarebbe di 935 milioni nel 2018 e di 6,2 miliardi nel 2019. I modelli dell’Ufficio parlamentare di bilancio sono prudenti, perché ci vuole tempo per trasformare: a un rialzo di un punto percentuale su tutta la curva dei rendimenti dei titoli italiani corrisponderebbe un aggravio in termini di spesa per interessi “da 1,8 miliardi nel primo anno, 4,5 miliardi nel secondo e 6,6 nel 2020”.

Ma con i Btp balzati in sei mesi da rendimenti negativi all’1,37% (sul due anni), dallo 0,75% al 2,59% (5 anni) e dall’1,75% al 3,35% (10 anni) quei numeri rischiano di essere superati. Sarebbe il paradosso: ampi settori della maggioranza sognano un ritorno a una banca centrale che finanzia direttamente il bilancio pubblico tenendo bassa la spesa per interessi, come prima del divorzio fra Bankitalia e Tesoro del 1981. Ciò consentirebbe maggiori margini di bilancio. Ma nel frattempo lo spread delle parole (che però con la manovra diverranno fatti) sta facendo esattamente il contrario.