Tentativi di flat tax, reddito di cittadinanza trasformato in una carta acquisti, abolizione della riforma Fornero lasciata in eredità ai contribuenti del futuro. Senza contare i saliscendi borsistici con effetti, potenziali, sulle ricchezze delle famiglie. Mano a mano che si delinea, la «manovra del popolo» del governo Lega-Cinque si svela più controproducente che favorevole alle fasce deboli della popolazione. Due fra i casi già menzionati sono i giovani e le donne, sacrificati dallo smantellamento del sistema previdenziale oggi in vigore. Ma la lista di azioni che potrebbero incentivare le disuguaglianze si va infittendo in vista dell'invio del testo alla Commissione europea.

Uno tra i capisaldi del governo gialloverde, soprattutto in quota leghista, dovrebbe essere la flat tax: un'imposta con aliquota fissa, proposta inizialmente al 15% e da allora modificata a più riprese. La tassa piatta è di per sé è una misura regressiva, almeno nel senso costituzionale del termine (la Carta prevede una tassazione progressiva, cioè con aliquote
che aumentano in rapporto al reddito). In prospettiva si dovrebbe arrivare a un format con due o più livelli di imposizione, ma nel frattempo si è raggiunto un compromesso dagli esiti rischiosi per un tema sensibile al governo: il precariato. Come è possibile? La bozza della manovra programma già nel 2019 un'aliquota al 15% per professionisti, artigiani e commercianti con ricavi fino ai 65mila euro. Niente a che vedere con la flat tax nel
vero senso del termine, ma la questione è un’altra. Tra i possibili beneficiari ci sono oltre un milione di partite Iva, novità che dà alle imprese la possibilità di favorire il lavoro autonomo rispetto a quello dipendente.

È la tesi di alcuni osservatori come l’economista Carlo Mazzaferro: perché - è la domanda - bisogna assumere un professionista in pianta stabile quando si può impiegare qualcuno fuori dal perimetro aziendale? Il risultato è un boomerang in favore dell'instabilità lavorativa, in teoria fra i bersagli della maggioranza gialloverde. Tra agosto 2017 e 2018, secondo dati Istat, si è assistito all'ennesima discesa dei dipendenti a tempo indeterminato, diminuiti di 49mila unità, a fronte del brusco aumento di quelli a termine (+351mila, il+12,6%) e un sussulto di ripresa degli indipendenti (11mila, lo 0,2% in più). Questi ultimi potrebbero conoscere un nuovo exploit ora, ma non è detto che sia una buona notizia: il lavoro indipendente in sostituzione di quello stabile aumenta per ovvie ragioni il precariato, deprimendo anche le prospettive di crescita delle retribuzioni.

Per come è stato formulato nel Def, il reddito di cittadinanza si propone come misura antipovertà, sotto forma di assegno mensile che innalzi le entrate mensili dei beneficiari a 780 euro mensili. La cifra può essere consumata nell’acquisto di beni di prima necessità, mentre il recepimento è condizionato all’iscrizione a un centro per l’impiego e all’accettazione di almeno una delle tre proposte che dovrebbero arrivare nell’arco di 24 mesi. La spesa previsa per la misura aggira sugli 8-10 miliardi di euro, a seconda delle dichiarazioni rilasciate dall’esecutivo dopo la pubblicazione della nota di aggiornamento. Il primo problema, è che la formulazione attuale della misura rende l’assegno più simile a un “buono acquisti” che a una politica di creazione del lavoro. La componente passiva del sussidio (la prestazione monetaria) non è bilanciata da una componente di politiche attive per la ricerca di impiego: insomma, si versano soldi ma non si favorisce la ricerca concreta del lavoro, delegata in blocco all’efficienza - molto - relativa dei nostri centri
per l’impiego. Non è tutto. A quanto è emerso di recente, il governo potrebbe modificare la misura per introdurre un incentivo a favore delle aziende che assumono. In sintesi: le imprese che mettono sotto contratto un beneficiario del reddito di cittadinanza potrebbe incassarne l’assegno per i mesi restanti.

Il progetto è stato annunciato in un’intervista a SkyTg24 da Stefano Patuanelli, capogruppo dei Cinque stelle al Senato. «Nel momento in cui l'azienda va ad assumere una persona che esce dal reddito di cittadinanza - ha dichiarato Patuanelli - trattiene per sé per un periodo il reddito di cittadinanza che doveva essere dato alla persona». Se confermato, il risultato complessivo della misura sarebbe una sorta di ibridazione fra un sussidio ai lavoratori (l’assegno di 780 euro iniziale) e un incentivo alle imprese (i soldi che rimangono dopo l’assunzione), in entrambi i casi privo di una componente di generazione del lavoro e potenziamento degli stipendi.

Sono già emerse diverse ipotesi, e stime, sull’impatto dell’addio alla riforma Fornero voluto da Lega e Cinque stelle. L’ultima è quella diffusa dal presidente Inps Tito Boeri. Secondo Boeri, introdurre nel sistema previdenziale la cosiddetta quota 100 (62 anni di età e 38 di contributi, insieme allo stop all'indicizzazione alla speranza di vita) potrebbe sfociare in «incremento del debito pensionistico destinato a gravare sulle generazioni future nell'ordine dei 100 miliardi». La stima di Boeri deriva dallo scenario di un aumento della spesa pensionistica che non si correla né a una riduzione degli assegni né a un ricambio generazionale di neolavoratori, comunque insufficiente a tenere in piedi l’impianto del sistema previdenziale («Non bastano due giovani neo assunti per pagare la pensione di uno che esce»). Sempre che ci sia davvero un ricambio generazionale, fenomeno che andrebbe in direzione contraria al trend attuale. Nella fascia dei 15-34 anni sono “scomparsi” circa 2,2 milioni di occupati fra 2006 e 2016 (dati Istat), mentre l’Italia è tra i pochi paesi a non essersi riassestati su livelli precrisi nella disoccupazione giovanile. A questo ritmo, diventano ottimistici anche «i due giovani neoassunti per uno che esce» immaginati da Boeri.

Alberto Magnani