Improvvisamente, in un primo pomeriggio qualunque di febbraio, siamo entrati in "guerra" con la Francia. Ma il conflitto arriva in un precipitare di dichiarazioni, risposte, e ragioni esposte e negate, che si susseguono in un percorso affrettato, imprevisto, caotico: nessun passo formale fra i governi delle due nazioni, nessun passaggio istituzionale o telefonata fra i vertici dei due paesi.

Precipitiamo nel faccia a faccia Italia-Francia in via extraistituzionale, come se si trattasse di uno scontro fra due partiti. Che, alla fine, è esattamente quello di cui si tratta: due campagne elettorali che si incrociano e che esplodono nello spazio comune europeo. Il primo colpo arriva da Parigi, ma nemmeno ufficialmente. Arriva in verità da un alert del Financial Times (è la globalizzazione bellezza) che ci annuncia che la Francia ritira "per consultazioni" il suo ambasciatore in Italia.

Arriva poi,stilato in due lingue, dal Ministero degli Esteri di Parigi un comunicato stampa, in cui si accusa l'Italia di ingerenze nella politica francese. Un'accusa molto seria annunciata come si trattasse di un convegno. E non esageriamo nel dire questo: da quel che si apprende in quei primi minuti, la Farnesina ha saputo della notizia dalle agenzie, esattamente come noi comuni mortali.

Nessun contatto ufficiale. I minuti cominciano a quel punto ad accumularsi, e nessuna voce italiana per un bel po' si sente. Forse è stupore, o forse è imbarazzo. Ma è anche un po' di sfortunato caso. Il Ministro degli Esteri Moavero è in viaggio con il presidente Mattarella, il Premier Conte è in Libano in una visita mediorientale che si conclude con l'ispezione delle forze italiane che guardano come Unifil la frontiera fra Libano e Israele.

Parla allora il Viceministro degli Esteri, e parla anche Bannon, il sovranista Usa prestatosi all'Europa. Ma le alte cariche istituzionali sia italiane che francesi restano mute, e fino a quando non parla Salvini non si capisce in che universo ci stiamo muovendo: propaganda, chiacchiere, addirittura uno scherzo?

E se è vero che Salvini ufficializza la crisi e mette sul tavolo le posizioni italiane il silenzio delle istituzioni non è per questo rotto. Salvini è dopotutto il vicepremier e il ministro dell'Interno. All'appello mancano ancora il presidente del Consiglio Conte, e il Ministro degli Esteri, e anche il Quirinale, nonostante il Presidente riatterri a Roma.

Una crisi insomma in cui l'ordine istituzionale è saltato. Per scelta o per incapacità non importa: che la crisi con il nostro vicino e fino a pochi minuti fa miglior alleato sia precipitata come una crisi fuori dalle istituzioni, non è dettaglio da poco. Quella che dovrebbe essere uno scontro fra stati, si sviluppa come una lite fra partiti politici. Ed è questo davvero l'essenza di quello che sta succedendo sull'asse Parigi-Roma.

E' evidente infatti, proprio in questa extraistituzionalità, la natura di scontro tutto fatto ad uso interno, tutto mirato alla campagna politica delle Europee. Il segno di questa operazione si è venuta costruendo negli ultimi tempi nei toni e nelle scelte tipiche dei climi elettorali.

Fanno testo la campagna di Salvini contro Macron sul respingimento dei migranti, sulla restituzione dei terroristi italiani, le incursioni del vicepremier Di Maio su suolo francese per prendere contatto con i gilet gialli. Ma lo stesso Macron ha da tempo alzato i toni, lasciando l'algido e forbito empireo del linguaggio presidenziale per le parole sprezzanti di uno scontro fra partiti e di cui "gli italiani meritano di meglio" è solo il più educato.

Naturalmente, il ritiro dell'ambasciatore "per consultazioni" da parte dell'Eliseo fa fare un salto a questi scontri. E a questo punto, diventata una questione nazionale, il rapporto con la Francia non può essere relegato – come del resto gli stessi due governi sembrano volere – nello spazio astratto delle relazioni internazionali. E' divenuto e lo sarà sempre più una questione cui dovremo prendere posizioni chiare su torti e ragioni. Ponendoci la domanda che non si pone mai in diplomazia: in questa disputa ha più ragioni la Francia o l'Italia?

Per quel che mi riguarda, la risposta non è molto difficile: al netto dei modi frontali e rudi con cui i nostri attuali governanti si sono confrontati con l'attuale presidente francese, al netto della inusitata scelta del vicepremier Di Maio recatosi a Parigi per un incontro con i gilet gialli in veste di semplice militante, è molto più sorprendente e imprevisto che perda ogni bussola istituzionale il presidente della Francia, un paese in cui il rispetto delle istituzioni è quasi sacro.

La drammatizzazione dello scontro con l'Italia, in questi toni e modi, costituisce – sempre a mio parere – una ulteriore prova della debolezza di Macron che da molti mesi sembra aver rinunciato di fronte al cambio del panorama europeo (e francese) al ruolo di guida illuminata dell'Europa cosi caro e ammirato da tutta l'Europa.

E' emerso piuttosto, dal più illuminato dei palazzi di Parigi, l'accentuazione di una politica rabbiosa e competitiva in cui il paese dei Lumi si distingue per un clima divisivo più che conciliante di una Europa democratica e unita.

Parliamo qui del doppio standard nella guerra economica strisciante che c'è fra i nostri due paesi – gli esempi sono vari, dal dossier Libia, a quello Fincantieri, ai respingimenti degli immigrati alle frontiere, tutti casi in cui Parigi ha applicato all'Italia regole che non applica a se stessa.

Ma forse il punto più inaccettabile di questa caduta del ruolo della Francia riguarda non solo l'Italia ma tutta l'Europa – e parlo qui del rinnovo del trattato di Aquisgrana, firmato il 22 gennaio 2019 tra Emmanuel Macron e la Germania di Angela Merkel, un patto di cooperazione tra i due stati mirato a completare, rilanciandolo, il patto fra Charles de Gaulle e Konrad Adenauer lo stesso giorno del 1963.

Una firma indicata ufficialmente come un impegno a rinnovare impegni comunitari per combattere i nazionalismi. Ma che in realtà è un patto che scrive norme speciali di alleanza fra i due paesi forti dell'Europa, che applicano a sé regole che agli altri paesi europei sono negati.

Il senso di questo accordo è venuto immediatamente fuori: al cuore del rilancio di Aquisgrana era la fusione delle due aziende Alstom-Siemens che avrebbe creato il più grande polo europeo dei trasporti ferroviari. Una fusione bloccata dalla stessa Europa proprio in questi giorni. Questi sono solo i casi maggiori.

La domanda è dunque impossibile da sfuggire: si può essere i paladini di una unità europea, si può essere anche i paladini di una riforma democratica delle istituzioni europee e contemporaneamente mettersi al di fuori, se non al di sopra delle stesse regole europee?

La Francia di Macron, in sintesi, sembra a me costituire oggi essa stessa un esempio di crisi e di disorientamento, più che un esempio di come fronteggiare con successo il populismo europeo. L'unico elemento positivo di questa vicenda è che costituisce la prova che anche le campagne politiche che una volta avremmo definito nazionali, attraversano fatalmente i confini e hanno impatto su tutte le altre nazioni. Prova involontaria e paradossale che l'Europa è già uno spazio politico fortemente unificato. Dunque difficilmente scindibile.

Lucia Annunziata