Alle ore otto e venticinque minuti del giorno 9 febbraio una fessura di luce appare in mezzo al cadavere del ponte Morandi a Genova, il ponte maledetto, nel tronco di Ponente, rimasto in piedi. Anzi le fessure sono due, distanti trentasei metri l’una dall’altra.

La lunghezza della trave di cemento e acciaio che si sta separando dal cadavere, come un gamba, un braccio, meglio un pezzo del corpo sezionato come in una gigantesca autopsia meccanica, che sta per essere calata da quei cinquantacinque metri di altezza al suolo.

Ci metterà quasi dieci ore quel troncone segato via a scendere giù nel percorso che 179 giorni prima, il 14 agosto, ore 11,35, le vittime della grande tragedia, i 43 passeggeri sventurati del Morandi, avevano impiegato pochi secondi per volare in quel vuoto improvviso, dentro alle loro automobili, ai loro furgoni, ai loro Tir e schiantarsi sul greto del torrente-fiume-rio Polcevera.

Loro pochi secondi letali, la trave osservata da migliaia e migliaia di occhi, guidata da computer e sistemi elettronici, trattenuta dalle cinghie delle sei imprese di demolizione, controllata dai tecnici del Rina Consulting, più di dieci ore.

Una scena al rallentatore, che ora il “lapse time” di televisioni e telecamere speciali, manda in onda a ogni ora, come a dimostrare che ce l’abbiamo fatta, che ora finalmente il ponte maledetto si smonta, questo è il primo pezzo, vedrete gli altri, con le gru, con gli strand jack, li chiamano così i lacci di acciaio che fanno calare i pezzi, con le cariche di dinamite domani, con tutto questo, con questo formicolio di uomini e mezzi sotto e sopra: Genova ha svoltato, il ponte muore, viva il nuovo ponte che nasce.

Per celebrare, per mettere i puntini sulle i, per sottolineare la svolta, sono perfino venuti il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, per la terza volta nella Superba dal giorno fatale, il ministro Danilo Toninelli, per la quarta volta, e insieme con tutte le autorità costituite sono andati sotto al ponte, dove i tecnici della demolizione, sei aziende specializzate, con in testa “Omini” e “Fagioli”, stanno realizzando questa mega operazione, che è sminuzzare questo cadavere di ponte, il suo chilometro e cento metri, meno i trentasei calati in quelle dieci ore, meno i quasi duecento crollati all’origine di una tragedia che sembra non finire mai.

Che cosa è questa, che si celebra al giorno 179, una festa dello smontaggio, una rivendicazione della perizia italiana, una svolta chiave nella vicenda del Morandi? O non è piuttosto un giorno di lutto, come molti ti dicono sotto il ponte in quel momento che hai visto la fessura di luce dimostrare che il ponte è stato tagliato e che ora quella trave mega si stacca e spolpa il ponte stesso?

Lutto perché ora lo stanno facendo venire giù, tra mille calcoli, mille misurazioni perfette, mille cautele, incominciando a ucciderlo del tutto, questo ponte, e quindi continuano volontariamente e necessariamente l’opera che era incominciata con il crollo improvviso, il crack micidiale di quella vigilia di Ferragosto?

Lutto perché un altro pezzo rompe la linea del viadotto, che ora ha come due vuoti nel suo percorso da una parte all’altra di questa valle, che dovunque vai, nel suo grande caos urbanistico, non fai altro che cercare con gli occhi il ponte e restare un po’ ammaliato a guardarlo questo manufatto, ex simbolo del Progresso, del boom anni Sessanta, quello sì un vero boom, e ora il segno di una caduta, una fine comunque, vuoto, spezzato, silenzioso, salvo quel formicolio dello smontaggio che poi se lo mangerà tutto.

Se sali su a Coronata, piccola frazione sulla collina che sovrasta il lato di ponente delle campate, antico feudo del Duca di Galliera, Raffaele De Ferrari, puoi guardare la scena da sopra e vedi i due buchi e i mezzi delle operazioni di demolizione e le gru, e quegli strand jack che pendono nel vuoto e senti il frastuono cupo del cantiere, la ferita ti sembra ancora più profonda, quasi una lacerazione, un vuoto che si allarga nella valle e ti immagini gli altri pezzi smontati, esplosi, scesi a valle nella pancia di questo territorio e ti chiedi se c’era veramente da celebrare, da mostrarsi in passerella, il premier, il ministro e il corteo dei commissari, Marco Bucci, il sindaco, Giovanni Toti, il governatore, tutti compunti con il casco di ordinanza in testa, Conte con quello dei pompieri, rosso fiammante, che questo Governo si deve sempre mascherare con le insegne dei corpi istituzionali, come se dovessero legittimarsi sicurativamente, il vice ministro Edoardo Rixi, competente per le Infrastrutture, genovese, che il casco bianco se lo calza con un po’di riluttanza, come se capisse che fa un po’ parte di una recita.

“Basta passerelle, questo non è uno spettacolo”, hanno scritto proprio là sotto, con uno striscione lungo, alto, esplicito, quelli dell’ala dura dei comitati di abitanti, residenti sfollati delle aree rosse, nere e arancioni, forse un po’ incavolati per questo andirivieni di autorità, la selva delle telecamere, dei microfoni che circolano intorno al cantiere della demolizione.

Toninelli usa la cerimonia per sottolineare ancora che il ponte lo pagheranno quelli che lo hanno fatto cadere, senza mantenerlo adeguatamente, cioè le Autostrade, contro cui spara un’altra cannonata. “Ho parlato con Giuseppina ed Enzo, dice poi, passando allo stile confidential, davanti ai microfoni spianati, alludendo a due sfollati, e li ho trovati più sereni dell’ultima volta”. Come dire: stiamo lavorando bene, siamo bravi, facciamo il nostro dovere…..sono tornato da Giuseppina e e Enzo, io sì che sono un ministro del popolo.”

E Conte spiega con il suo tono sussiegoso che con la ricostruzione completata, sicuramente per l’aprile del 2020, “dimostreremo al mondo che ci sta guardando cosa sa fare l’Italia". Sono venuti per questo, per mettere il casco sull’operazione demolizione-ricostruzione e se ne vanno soddisfatti, con il corteo delle auto blu, che la valle incomincia a guardare un po’ storto. La prima volta hanno applaudito e pianto, la seconda hanno pianto ancora, la terza sono stati silenziosi, ora sono silenziosi, ma c’è quel cartello che parla per loro: “Basta passerelle!”.

Non è questa delle celebrazioni l’aria che 179 giorni dopo soffia giù dall’Appennino per la Valpolcevera sofferente, colpita, che ora vede le stagioni del proprio disastro scorrere una dopo l’altra. E le passerelle continuare. Anche se il sindaco-commissario Marco Bucci, dopo lo show della supertrave calata, annuncia che la prossima discesa avverrà senza tanti inviti alle autorità e perfino senza data precisa. Come dire: ora lavoriamo. Zitti e al lavoro.

Se guardi sempre da lassù, da Coronata, celebre per il suo vino bianco di nicchia, per il grande ricovero fatto costruire dalla Duchessa di Galliera, Maria Brignole Sale, alla fine del secolo XIX, su questa colina dolce, un terrazzo, una balaustra con affaccio sulla valle, sul ponte e sul blù del mare in fondo, se guardi da quassù, quello che vedi sotto e non solo intorno al ponte in sbriciolamento è una specie di rosario di sofferenze.

Vedi dall’alto il quartiere di Certosa, soffocato dalla crisi, dove i commercianti resistono con le unghie e con i denti alla mancanza di clienti allontanati dal patatrac e dove, eureka eureka,. una tavola calda riapre eccezionalmente per dare pasti caldi agli operai della demolizione. Ora sono poche decine questi operai-chirurghi del cemento da tagliare, ma tra qualche mese saranno quattrocento, insieme a quelli della ricostruzione e a Genova sorge già il problema di dove ospitarli.

Boccate d’ossigeno per un tessuto produttivo che continua a perdere colpi dopo il crollo. Da pochi giorni ha chiuso “Giugiaro”, azienda supertecnologica, insediata a centinaia di metri oltre il ponte da soli cinque anni, che costruiva vetrate super raffinate per yacth e per l’edilizia e per le ferrovie, per i grattacieli, un business moderno e avanzato, mandando a casa 32 dipendenti.

Altri 32 che si aggiungono a una lista nera che non fa dormire il sindacato e che monta la rabbia dei quartieri sotto il ponte. Si trasferirà altrove nel Nord Italia, la “Giugiaro” e quei 32 stanno a casa: “licenziamento collettivo” si scrive come su una lapide. Qua l’azienda stava soffocando dal 14 agosto, troppo difficile arrivarci e ripartire con i carichi delicati della sua produzione.

Da Coronata vedi finalmente riaperte anche le strade che collegano i quartieri di questa parte di Genova: Rivarolo, Teglia, Bolzaneto da una parte, Fegino, Campi e su, verso Pontedecimo, verso i Giovi, il passo appenninico che chiude la vallata.

Il traffico scorre di più, dopo l’immane lavoro degli uomini di Bucci, che hanno costruito bypass, creato quella che un po’ ironicamente chiamano “Grondamare”, perché scorre alle spalle del porto, sostituendo l’autostrada accecata dal crollo del ponte, che aspetta la sua Gronda vera da anni e anni, quella che, se l’avessero costruita, il Morandi forse non sarebbe crollato. Ma Beppe Grillo, che qui hanno votato in massa, non l’ha voluto.

Ciò migliora la situazione della popolazione, delle 1400 aziende colpite direttamente o indirettamente dal crollo, piccoli e grandi, da quel bottegaio o da quel benzinaio che hanno chiuso, fino a Ansaldo Energia, con i suoi 3.500 dipendenti, che solo oggi ha riaperto la mensa interna e non deve trasferire i suoi operai e i suoi impiegati in un capannone a pranzo, ogni giorno avanti e indrè. E sono tornati in fabbrica anche i trecento ingegneri, che avevamo dovuto cercare spazio lontano per lavorare.

C’è un po’ di respiro, ma se resti quassù, a Coronata, e guardi il colosso disossato del ponte immagini il grande cantiere che ci sta crescendo intorno e che a poco a poco occuperà gli spazi come una grande piovra. La piovra avvolgerà le corsie rimaste in piedi, le campate, gli stralli per demolire pezzo a pezzo, bombe e computer millimetrici, per segare il cemento, come fosse una torta di panna.

E intanto un altro cantiere avanzerà per ricostruire, portando là sotto i pezzi del nuovo ponte: Fincantieri li sta già preparando nei suoi stabilimenti, grandi travi di acciaio lunghe decine, se non centinaia di metri da trasportare nella valle insieme ai piloni nuovi, insieme alla montagna di cemento per fare l’autostrada a sei corsie, i guard rail….. Non è quasi immaginabile il volume immane che questi pezzi impegneranno intorno al fu-ponte. E come saranno trasportati fino là sotto, attraverso la città, le sue strade, le sue comunicazioni restaurate con tanto fatica? Quanti trasporti eccezionali, quanti anni di calvario intorno, per quelli che abitano sul confine della zona rossa e che nessuno può misurare quanti danni ambientali avranno per un cantiere che promette di lavorare h24 fino alla fine!

È una corsa contro il tempo, verso quella data dell’aprile 2020, straproclamata da Conte e Toninelli, per vedere il ponte percorribile e verso la fine del 2019 per vedere il newponte in piedi. Le tv locali si impegnano davvero a trasmettere il “laps time”, quella ricostruzione accelerata della grande trave che scende im pompa magna, primo esempio di demolizione su scala scenografica.

Tutti vorrebbero vedere ora il “time lapse” del ponte che si ricostruisce, i piloni in fila, le corsie che si completano, i guard-rail che vanno al loro posto, il vuoto che si riempie, tra una campata e l’altra. E’ un film che sembra un po’ un sogno, una vision, detto all’ inglese, come piace al sindaco-commissario Bucci, che detta ogni giorno il cronoprogramma della demolizione-ricostruzione. Sperando che non piova troppo, che non tiri troppo vento, che non capitino incidenti, che le mosse della magistratura inquirente non fermino i lavori per esigenze investigative…….

La tramontana sventola un po’ lo striscione che chiede a caratteri cubitali di non fare più passerelle e avverte che questo non è uno spettacolo. Da quassù, Coronata, i fotografi e i cineoperatori non mollano la scena. Per ora.

Franco Manzitti