Le "lettere al direttore" hanno per noi sempre particolare importanza nella lettura dei giornali. Specialmente quando il curatore dell’apposita pagina seleziona quelle maggiormente rappresentative della commedia umana che al momento va in scena nel teatro della politica e della società in generale. Non solo troviamo in esse i più variegati umori delle persone che scrivono, ma anche riflessioni, suggerimenti, proposte che dovrebbero essere considerati e vagliati dai governanti e dagli amministratori della cosa pubblica. Insomma, a noi le lettere al direttore non sono mai parse semplicemente uno sfogo che i giornali ospitano per rinsaldare il rapporto con il lettore, misura e sostegno della loro diffusione. Piuttosto le abbiamo considerate di norma un cofanetto nel quale, tra tanta bigiotteria, è possibile trovare qualche pezzo apprezzabile per il contenuto e l’esposizione, per l’arguzia e il buon senso, per l’ironia e la severità.

Al riguardo, una perlina di saggezza ci sembra la lettera pubblicata di recente dal "Corriere della Sera" a proposito dei centri per l’impiego che sono lì lì per essere potenziati dall’innesto portentoso di una nuova categoria impiegatizia, il navigator, sciocca denominazione scovata, parrebbe, dal ministro del Lavoro che, non essendogli bastata la scempiaggine, ha pure voluto primeggiare da ministro italiano nel biascicare all’inglese, navigheitor, la parola latina, tal quale nella lingua dei Quiriti. Ahimè cotanto campione è seguìto nell’attrattiva perversione linguistica e culturale da una marea di insipienti, appartenenti con qualche eccezione al mondo della comunicazione e, purtroppo, all’albo dei giornalisti. L’autore della lettera ha voluto conservare il semianonimato, firmandosi soltanto Sergio G. ma sbagliando, perché ha scritto con saggezza: "Circa 16mila persone hanno presentato domanda per la nuova figura professionale, inventata da poco, il navigator. Ma il nuovo lavoro come va considerato? I candidati sono persone laureate che non hanno un lavoro, ma che dovrebbero trovarlo agli altri. Se il lavoro non c’è per loro, come riuscire a trovarlo per altri? Rimane un mistero. Forse, se queste risorse fossero state spese per creare lavoro vero, questi giovani avrebbero avuto un futuro più roseo: fra tre anni, quando finiranno di fare i navigator, che cosa faranno? Si troveranno nelle stesse condizioni di oggi, cioè senza lavoro, e avranno perso tre anni della loro vita".

I 16.000 candidati a 3.000 posti di precario, per un impiego tanto indeterminato nelle funzioni quanto determinato nella durata, sono la più recente e lampante manifestazione dell’adulterazione socialistica del concetto di lavoro: da apporto di utilità ad asporto di stipendio. Che un ufficio pubblico, sebbene inzeppato di navigator, sia capace di rinvenire offerte di lavoro oltre quelle naturalmente generate dal mercato, capacità che sola potrebbe giustificarne il costo se almeno pareggiasse i benefici, costituisce a tutt’oggi una chimerica illusione. C’è un punto però sul quale non possiamo concordare con il saggio autore della lettera, ed è dove egli prevede che i navigatori poi resteranno disoccupati, avendo perso tre anni di vita. No, non saranno licenziati e, stipendio a parte, non avranno neppure speso invano tre anni di vita. Resteranno in pianta stabile a carico dell’erario, pure se per miracolo l’economia raggiungesse nel frattempo la piena occupazione, rendendoli del tutto inutili. Saranno ormai appulsi potius quam navigatores: approdati anziché naviganti.

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