Leonardo da Vinci e Napoleone Bonaparte, rispettivamente a 500 e 198 anni dalla morte sono spunto a alcune riflessioni su un tema sul quale in genere preferiamo scivolare: la percezione che il resto del mondo ha dell’Italia e degli italiani, esattamente opposta a quella che noi abbiamo di noi stessi. Noi ci vediamo come titani, intelligenti, simpatici, geniali, un popolo di navigatori, santi e eroi. Il nostro vero inno nazionale dovrebbe essere Ziki Paki.

Gli altri, gli stranieri, ci chiamano maccheroni, mangiaspaghetti, per limitarci alle espressioni meno razziste e offensive. Ci considerano infidi e traditori, come certificato dalle vicende della prima metà del secolo scorso. Ci apprezzano come camerieri e ristoratori, il massimo che gli inglesi ci fanno fare è l’allenatore di calcio. Se il tedesco è di cattivo umore nessuno ti toglie l’epiteto di mafioso. In questo è difficile dargli torto, dopo le imprese criminali di alcuni connazionali e i successi letterari di altri. Non scrivo questo per sciovinismo.

Personalmente li ammiro tutti, francesi, inglesi, tedeschi. Studio e leggo la loro lingua, penso che umanamente non siano peggio di noi. Sono solo diversi, più forti, più potenti. Nei loro confronti non dobbiamo farci illusioni. Dobbiamo studiarli e conoscerli e non farci umiliare. Per essere pari a loro non dobbiamo pensare di essere più furbi, quello lo facevano i magliari.

Dobbiamo essere invece consapevoli delle nostre debolezze. Possibilmente rimediando: non con le tipiche astuzie italiane. Piuttosto mettendo ordine in casa nostra.Le ricorrenze di Leonardo e Napoleone sono due casi che, in particolare, ripropongono i rapporti con la Francia. Leonardo, nato a Anchiano fraz. di Vinci, Firenze, il 15 aprile 1452, morì ad Amboise, in Francia, il 2 maggio 1519.

Comincio con Bonaparte. Napoleone, nato in territorio quasi italiano con nome italiano e morto lontano dalla Francia, ne è stato imperatore e la ha dominata per quasi un ventennio; suo nipote per altri 10 anni. Il 5 maggio è stato l’anniversario della morte di Napoleone Bonaparte, nel 1821. Farà due secoli fra un paio d’anni ma con le commemorazioni non è mai troppo presto. Su Napoleone ormai è tempo di un profondo revisionismo. Scuola, retorica e conformismo ci hanno educato alla vulgata laicizzante che in Italia ha fatto di Napoleone una specie di precursore di Mazzini, Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele distillati da un estrattore della Storia. Portò il vento della libertà in Italia?

Le idee nuove lo precedettero di un decennio. Il Risorgimento maturò nel clima della crescita economica che avvolgeva tutta Europa, scatenò la Rivoluzione Francese e fece esplodere nel 1848 la Rivoluzione in tutta Europa con Metternich in fuga da Vienna e Carlo Alberto alla testa del Risorgimento italiano. All’Italia Napoleone fece più male che bene. Mise in ginocchio la nostra industria tessile, ci stremo con la leva militare di massa e con le tasse. Dopo la sua caduta, i milanesi linciarono il ministro delle Finanze Giuseppe Prina, che li aveva spremuti ben bene in nome della libertà e di Napoleone.

Napoleone fu il nome dietro il quale si sviluppò la prima di una serie di illusioni, forse mistificazioni, che Benedetto Croce rivela nella sua ricostruzione della esperienza di Giuseppe Poerio, calabrese-napoletano. Rivoluzione, carcere prima di scoprire che dietro le "vacuità parolaie" si celavano la "ipocrisia dei conquistatori […] disegni di potenza politica, […] sfruttamento, rapina". A Napoleone dell’Italia interessava assai poco. Lui guardava a Parigi, alla Francia. Della Francia sarebbe diventato imperatore, l’Italia sarebbe stata un regno subordinato, praticamente annesso. Non è che Bonaparte fosse proprio francese. La Corsica dove nacque nel 1769 era stata ceduta alla Francia l’anno prima dalla Repubblica di Genova. Dicono che parlasse un mezzo patois genovese e che l’accento corso non lo abbandonò mai. Ma per l’emigrante, e tale era Napoleone in Francia, la patria d’origine è un altarino di ricordi e qualche pezzo di gastronomia.

La patria è quella che ti ha sfamato, che ti ha dato casa e onore nel nostro caso anche ricchezza e gloria. Senza trascurare che a quei tempi l’Italia era, ben più di oggi, una espressione geografica, l’idea di Italia era astrattissima, i corsi odiavano i genovesi, i genovesi i piemontesi, futuri oppressori, disprezzando tutti gli altri, ricambiati. Tutto passa comunque a questo mondo, uomini cose beni ricchezza gloria e la nostra stessa vita fisica. Tranne la memoria, scriveva Ugo Foscolo, tutto.

Oggi nemmeno la memoria sopravvive, come perfino sancito dalla burocrazia eurocratica nel diritto all’oblio. Con qualche ragione gli eredi Bonaparte potrebbero invocare il diritto all’oblio per il giudizio che della ascesa e della caduta di Napoleone ci ha lasciato il duca di Wellington dopo averlo sconfitto a Waterloo. Dando per scontato il genio tattico sul campo di battaglia, Wellington ha individuato la sottostante ragione dei successi di Bonaparte in un dato strutturale. La leva di massa fornì ai generali francesi milioni di soldati da buttare nella mischia. Tanti ne morirono, ma il pianto dei loro parenti era soffocato dalle urla dei trionfatori. Nessuna preoccupazione logistica, le truppe si rifornivano nel territorio attraversato. Se ci si riflette, anche la ricetta del pollo alla Marengo ne è una conseguenza. Tutti ingredienti ottenibili dai contadini a parte i gamberi, facilmente reperibili in fiumi e torrenti. Andò avanti così fino all’invasione della Russia. La mancata programmazione logistica determinò l’inizio della fine dell’imperatore francese.

Secondo Wellington, Napoleone subì le maggiori perdite non durante la ritirata, ma nella fase di avanzata. Solo un sesto delle truppe che costituivano il corpo di spedizione (700 mila uomini) arrivò in terra russa. Gli altri si erano dispersi, affamati, nella marcia, disertori o morti. L’esercito francese non era in grado di nutrirli e di rifornirli. Questo è il giudizio del generale inglese che segnò la fine di Bonaparte. Sembra anticipare la logica in cui si mosse, 130 anni dopo, un altro inglese, Bernard Montgomery: con la superiorità logistica umiliò il rivale tedesco Erwin Rommel nel deserto libico.

Tutto passa e la citazione integrale del Cinque Maggio che Corrado Augias fa in un articolo su Repubblica è commovente e impressionante. Cito i versi che ancora ricordo dai tempi di scuola: Ei fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, così percossa, attonita la terra al nunzio sta… il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola… Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza… Augias qualche dubbio sul ruolo positivo di Napoleone verso l’Italia sembra nutrirlo. Scrive dello "spirito di libertà che le armate da lui [Bonaparte] guidate andavano diffondendo in Europa".

Ma poi prende le distanze: "C’è chi considera le cannonate di Marengo (giugno 1800) il segnale che risvegliò l’Italia dal suo sonno, avviando il processo risorgimentale", ma non dice se lui stesso fa parte di quello che la pensano così". Rosario Romeo non ha avuto incertezze quando ha quantificato i disastrosi effetti della politica economica di Napoleone sull’Italia. Altro che mito. Svegliamoci dalle nostre illusioni. Domani Leonardo…

di MARCO BENEDETTO