Alla fine il popolo ha parlato. Dalle urne delle Europee viene fuori un verdetto chiaro: stravince la Lega e straperde il Movimento Cinque Stelle. In effetti, il rovesciamento dei rapporti di forza all’interno della maggioranza era nella aria. Ma che botta la Lega al 34,35 per cento e i grillini che faticano a stare sopra il 17 per cento! A margine, bisogna registrare il lieve miglioramento del Partito Democratico (22,71%) rispetto alle Politiche dello scorso anno e il successo di Fratelli d’Italia (6,46%) che spicca sulla disfatta di Forza Italia (8,78%). Il ribaltamento dei rapporti di forza tra alleati di Governo rinvia al nodo centrale dell’odierna fase politica: riuscirà il Governo giallo-blu a proseguire la sua esperienza o lo si può considerare morto e sepolto?

Stando alle dichiarazioni di Matteo Salvini la vittoria schiacciante del suo partito non è destinata a modificare gli assetti di Governo. Sarà pure in buona fede il “Capitano", ma chi gli crede? Anche un cieco vedrebbe la realtà fotografata dalle urne: fuori dai palazzi della politica c’è un’Italia desiderosa di “legge & ordine" ma che non è “manettara" tout court. È un’Italia laboriosa e produttiva che, sebbene apprezzi lo spirito di giustizia dei grillini, non ce la fa a seguirli sulla strada dei “no" diffusi e reiterati, in particolare allo sviluppo infrastrutturale del Paese e agli sforzi per sburocratizzare la farraginosa macchina della Pubblica amministrazione. Come pensare che Salvini non passi all’incasso in nome e per conto dei suoi elettori?

La distribuzione del voto nelle circoscrizioni restituisce chiara la fotografia di un’Italia ancora una volta divisa “culturalmente" sulle visioni di fondo della società. Nel Nord-Ovest e nel Nord-Est, la Lega si è ripresa l’elettorato che l’aveva abbandonata per i grillini alle elezioni politiche del 2013 e alle europee del 2014. Ciò che ha indotto i settentrionali a ravvedersi sui Cinque Stelle, principalmente, è stata la contrarietà a un’idea di società dominata dal totem della decrescita felice. L’Italia produttiva non attendeva altro che di essere rimessa in moto, invece si è trovata a fare i conti con un MoVimento Cinque Stelle ostile al rafforzamento dell’imprenditoria privata e fautore dell’allungamento della longa manus statale in tutti i settori dell’economia. Al momento i grillini devono elaborare il lutto della sconfitta. Poi, dovranno verificare le condizioni che l’alleato leghista porrà per proseguire l’esperienza di governo.

I pentastellati sono finiti in un cul-de-sac perché non hanno compreso la composizione della loro stessa base elettorale. Di Maio e soci hanno compiuto l’errore comune a molti commentatori e analisti politici di ritenere il proprio elettorato totalmente di estrazione di sinistra e progressista. Niente di più sbagliato. Temendo di perdere consensi a causa di un rigurgito antisovranista e filoeuropeista, rimasticato attraverso l’abomaso dell’antifascismo di maniera del Partito Democratico nella versione aggiornata di Nicola Zingaretti, nelle ultime settimane di campagna elettorale i grillini si sono prodotti in aggressioni quotidiane all’alleato leghista. Invece, come dimostrano i dati, hanno ottenuto l’effetto contrario. Di là da un modesto spostamento di voti a favore del Partito Democratico, gli elettori dal Cinque Stelle sono andati in direzione dell’astensione o della Lega. In particolare, la componente di destra dell’elettorato grillino, spaventata dalle posizioni terzomondiste, pseudo-pacifiste e di distanziamento dall’alleato statunitense, assunte dai Cinque Stelle in politica estera ma anche dall’arretramento dalle posizioni iniziali di totale condivisione delle politiche di contrasto all’immigrazione clandestina del ministro dell’Interno, è scappata rifugiandosi sotto la bandiera leghista. Soprattutto dopo che Salvini in persona aveva offerto ampie garanzie che non sarebbe tornato a fare il centrodestra con Berlusconi e Forza Italia.

Già, perché un altro aspetto sottovalutato della composizione elettorale grillina è la presenza, dal sorgere del Movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, di una vena legalitaria, a tratti giustizialista, ostile al centrodestra perché idiosincratica alla leadership berlusconiana. Si tratta di una destra arcigna e forcaiola che, nella prima Repubblica, si riconosceva in alcune istanze del Movimento Sociale Italiano. Con l’avvento della Seconda Repubblica tale vena si è diversamente collocata a seconda delle stagioni e dell’offerta politica. Per un periodo si è riconosciuta nel Girotondismo e nell’“Italia dei Valori" di Antonio Di Pietro, salvo poi ad approdare ai Meetup organizzati dalla “Casaleggio Associati". Ora, quella destra anomala non avrebbe mai potuto accettare la svolta a sinistra imposta da Luigi Di Maio per fare aggio elettorale sull’alleato leghista.

Per i Cinque Stelle si prospettano giorni difficili in vista di una quadra che non sarà possibile trovare se non al prezzo della scissione del Movimento. Salvini li ha messi spalle al muro, non vuole poltrone ministeriali ma pretenderà di dettare l’agenda dei prossimi mesi. Potranno i grillini concedere tanti sì in luogo degli altrettanti no opposti finora all’alleato? Se rompono si va al voto anticipato, consapevoli di come la pensino gli italiani. L’unica exit strategy che consenta a Di Maio di salvare la capra del Movimento e i cavoli personali del politico desideroso di restare sulla scena, è di approfittare della bastonata rimediata, scaricare tutte le colpe sulla svolta sinistrorsa dell’ultimo mese, mettere alle porta gli ultrà progressisti della corrente di Roberto Fico, mantenere a proprie spese su un atollo dell’Oceano Pacifico il “casinista" Alessandro Di Battista, purché alla larga dall’Italia, e acconciare un partito, idealmente moderato/ conservatore vocato a drenare il consenso non captabile dalle forze del centrodestra tradizionale, ad essere l’alter ego della Lega in un’alleanza strutturale, non più solo contrattuale, a base sovranista.

Cristofaro Sola