L’Europa come è stata fin qui è arrivata alla sua penultima stazione: il sistema politico tradizionale, quello che ha tenuto insieme nel dopoguerra il vecchio continente, è in macerie. E macerie non è una parola usata tanto per esagerare. La debacle delle istituzioni è più forte proprio nei paesi che hanno costruito l’Unione, e che l’hanno guidata finora - la Germania del crollo personale e politico della Merkel, la Francia del "meraviglioso" presidente Macron durato lo spazio di un mattino, l’Inghilterra patria, come si dice sempre, di meravigliose storie democratiche, vittoriosa su Hitler, ma sconfitta poi dal capetto Nigel Farage; e l’Italia che al solito fa da anticipatore di ogni trasformazione – in questo caso può vantare di essere la nazione che per prima ha consegnato agli antieuropeisti il proprio governo.

È vero, la destra non ha ottenuto le chiavi di Bruxelles, gli è mancata la palma della maggioranza che gli permetta di governare, ma la sua è stata una affermazione netta, solida, e, soprattutto, in crescita. Il segno più rilevante di questa forza, è il successo personale di tre leader, Le Pen, Salvini, Orban, le cui figure offrono oggi ai sovranisti un fronte pubblico che ampiamente compensa ogni frammentazione e divisione al proprio interno. Questo mondo della destra europea, come già successo con quella americana di Trump, vince perché intercetta la nuova rottura fra classi, la fine del contratto sociale di mutua collaborazione insito nel welfare del dopoguerra, il distacco della connessione fra i dimenticati e gli attivi del nostro mondo.

È un successo che non si spiega solo con il richiamo al fascismo, o con la coltivazione delle paure, del razzismo. L’uno, il fascismo, e gli altri, la paura, il razzismo, sono la forma che questo risentimento sociale prende. Non ne sono l’origine. È esattamente l’inverso di quanto si sostenga oggi fra gli europeisti, nel mondo democratico. Cedere alla tentazione di non riconoscere queste radici del successo, sminuirne la portata (come un po’ già si sta facendo in queste ore) rifugiandosi nelle fatwe ideologiche, è una sicura strada per aumentarne il tasso di efficacia.

L’Europeismo tuttavia non è del tutto battuto, e non solo perché gli rimangono in mano numeri di un potenziale governo. La indicazione più rilevante per i democratici è l’affiorare anche nelle proprie file, come a destra insomma, di una forte richiesta di cambiamento. Al crollo dei partiti tradizionali l’elettorato europeista pare opporre, con il suo voto ai verdi ad esempio, la consapevolezza dei propri limiti. Questo fronte ha oggi una responsabilità che fino a pochi mesi fa gli era stata sottratta. Dentro la crisi della democrazia rappresentativa nelle maggiori democrazie del mondo, ricompare in Europa il baluardo del bipolarismo fra destra e sinistra.

La scelta che questo fronte democratico deve ora fare è molto semplice – entrare con coraggio in questo nuovo scenario turbolento, non negando la forza della destra, non chiudendosi in un clima di pura resistenza, ma accettandone invece fino in fondo la sfida. Sfida che in politica significa, quando si perde, una sola cosa: capire perché il proprio avversario vince (in questo caso la destra) e andare a riconquistarne voto per voto gli elettori persi, ritornando fra i cittadini, ascoltandoli come mai prima, e riformando sé stessi prima ancora che tentare di fare le prediche a tutti gli altri.

I prossimi anni, dentro il governo continentale di Bruxelles e nelle capitali dei vari paesi, si giocherà insomma sul filo di lana il profilo della nuova Europa. Lo scontro finale comincia solo ora. A proposito di domande sulle ragioni della vittoria della destra, comincerei, in Italia, da quella che ci pone un piccolo luogo, uno dei simboli del fronte su cui la prima parte dello scontro fra destra e sinistra è passato nei mesi scorsi. Parliamo di Lampedusa, che ha incoronato come suo politico prescelto, senza nessun equivoco, Matteo Salvini: sull’isola degli sbarchi, visitata da organizzazioni umanitarie, attivisti, e Ong, e dal Papa, la Lega supera il 45 per cento del consenso – per capire il livello della crescita abbiamo come numero di paragone il dato dello 0,86 per cento che è quello ottenuto dalla Lega nel 2014. In termini assoluti le cifre sono però incontrovertibili.

Su 1.404 votanti il Carroccio ha ottenuto 618 voti, un vero e proprio plebiscito. Lo stesso è avvenuto in tanti luoghi simbolo dello scontro politico degli ultimi mesi – a Torre Maura, sesto municipio di Roma, l’insofferenza verso i rom (ricordate il pane calpestato?) si è tramutata in consenso elettorale: la Lega qui è al 36,8%; nella Riace del "modello Lucano", Salvini è il più votato, con la Lega primo partito al 30,7; a Mirandola la Lega va al 41 per cento. A Melendugno, il comune del Tap della discordia, i cittadini "traditi" tolgono la fiducia ai 5 Stelle e la riversano, a sorpresa, anche qui, su Salvini, che raccoglie il 26%. A Verona, sede scelta per il discusso Congresso della Famiglia, la Lega è al 37%, mentre a Macerata, dove alla vigilia delle elezioni politiche del 2018 Luca Traini ferì a colpi di pistola dei migranti, il Carroccio conferma il boom: 41%, con il Partito Democratico lontano 20 punti.

E in Val di Susa, presidio ultraradicale dei 5Stelle contro la Tav, vince ancora Salvini, così come vince a Capalbio, il favoloso luogo dell’Atene democratica.Sono risultati che non solo mettono in discussione le opinioni politiche della sinistra, dei 5 Stelle, ma l’intera narrativa con cui ci si è opposti a a Salvini: la forza degli eroi civili, e la forza delle esperienze umanitarie. Un repertorio evidentemente proiezione più di desideri che di realtà. Casi che autorizzano la più importante domanda di questo dopo elezioni: conosciamo davvero cosa significa questa svolta a destra? Al di là della ossessione con i leader e la leadership su cui la politica e i media si sono ampiamente soffermati, la verità è che la sconfitta della democrazia in occidente non solo nasce dal distacco dei cittadini, ma anche dalla loro semplice materiale, quotidiana conoscenza.

Questione di primaria rilevanza. A meno che non si possa immaginare di vivere in un cambiamento radicale senza sapere bene di cosa si tratti. Senza mettere in ballo la nostra capacità di lettura del presente. Un compito particolarmente gravoso e impegnativo per i media che, a mio parere, non hanno lavorato affatto sullo scollamento sociale. Ma la lettura del presente è anche l’unico strumento su cui fare leva per ricostruire la dinamica democratica. Salvini è stato ripetutamente, e giustamente, insultato, irriso. Ma non è bastato a fermarne la corsa. Anzi, per certi versi è stato santificato ed esaltato dagli insulti dell’area democratica.

Un perverso meccanismo di conferma che ricorda strepitosamente la lunga permanenza di Silvio Berlusconi nella politica Italiana. In sintesi, per quel che riguarda Salvini dobbiamo accettare di dirci che non ha vinto per questo o quello ma perché nel suo insieme la sua proposta politica ha parlato a vari segmenti della società che gli altri partiti, a cominciare dai 5 Stelle, hanno perso. Il suo voto costituisce una vera base nel paese, non è un potere transitorio. Il che ci porta all’altro corno dell’analisi di quello che è successo in Italia. Il crollo dei 5 stelle suggerisce infatti qualche ulteriore lezione sulle correnti che attraversano questo paese.

Responsabili dello sdoganamento e del rafforzamento di Salvini sul piano istituzionale, leghisti sulla sicurezza prima e antifascisti contro Salvini poi, antieuropei fino a un certo punto e poi guardiani insieme a Mattarella (dopo averne chiesto l’impeachment) in difesa dei parametri europei: la loro sconfitta attuale è la ulteriore prova, se era necessaria, che la politica intesa come puro elemento di corteggiamento del voto non paga. I cinque stelle pagano quella promessa palingenetica della "sconfitta della povertà" – i cittadini, come dicono sempre i cinque stelle non sono stupidi, sanno leggere la politica. E l’hanno letta anche quando a farla (errata) sono stati i loro stessi paladini. Insomma, anche nel caso dei 5 Stelle, l’unità di misura sono sempre e comunque gli elettori, che sembrano aver esercitato in questo voto una straordinaria forza selettiva nei confronti dei propri interessi – piacciano o meno.

Infine il Pd, che oggi ha l’onere e l’onore di essere l’unica forza politica in Italia che ha sulle spalle il compito di opposizione vera a un governo ormai cambiato di segno, e tutto spostato a destra. Ma la sua performance in queste elezioni dobbiamo chiamarla per quel che è: un forte segno di vitalità, di resilienza, un sussulto per ritrovare un impegno da parte di molti elettori, un rifiuto della inevitabilità della deriva a destra. Ma tutto ciò è ben lontano dal costituire, anche in termini numerici, una nuova piattaforma politica, una nuova organizzazione che sia capace di recuperare il consenso che ha costruito la destra. Il Pd vive una crisi che precede il successo della destra odierno, e , persino, della crisi istituzionale della nostra democrazia.

La sinistra ha bisogno di rinnovarsi, di creare una offerta politica nuova, e di trovare nuovi alleati, non ultimo in Europa. Il suo tessuto interno è molto fragile, minacciato com’è da una immanente presenza di molte figure di peso ma non necessariamente d’accordo sul cosa fare, come Renzi per dirne una, il cui orizzonte politico non è chiaro, o da una classe dirigente vecchia e molto indipendente dalle logiche di una organizzazione unitaria. Né questa ricostruzione può essere fatta ricorrendo a tatticismi di alleanze: per dire, l’idea di un accordo fra M5s e Pd allo stato attuale sarebbe solo una precaria alleanza fra due zoppi. La strada della sinistra è oggi quella di una rinascita.

È lunga, è complicata. In altri tempi si sarebbe detto che la questione della sinistra oggi ha a che fare con il suo peso non con i suoi numeri, tanto per citare un vecchio banchiere italiano. O, come direbbe Gramsci, è questione di egemonia non di alleanze.

LUCIA ANNUNZIATA