Ciclicamente la letteratura scientifica si arricchisce di nuovi esperimenti in cui si dimostra l’efficacia di un particolare trattamento per ridurre il peso corporeo. I più famosi sono gli studi in cui si svelano nuove pillole capaci di far perdere in poche settimane decine e decine di kg accumulati in mesi o anni di alimentazione sbagliata. Accanto a questi studi esistono, però, altri metodi sperimentali per contrastare l’obesità. Uno dei degli ultimi proposti è tramite l’utilizzo della stimolazione magnetica transcranica, un trattamento non-farmacologico che permette di interferire con l’attività elettrica cerebrale riuscendo a potenziare la risposta di aree malfunzionanti o inibendo l’attività di aree ipersensibili. La sua efficacia è ormai conclamata a livello mondiale per quanto riguarda alcune malattie psichiatriche come la depressione maggiore o per le malattie neurologiche come il Parkinson o l’Alzheimer.

Per quanto riguarda la sua applicazione sui pazienti obesi, un gruppo italiano ha appena pubblicato un nuovo studio in cui si dimostra l’efficacia di questa tecnica di neurostimolazione nel ridurre dell’7-8% la massa corporea in pazienti obesi. Sono bastati 3 sedute settimanali per poco più di un mese per raggiungere immediati risultati significativi. Ma cosa ha provocato a livello cerebrale questa stimolazione magnetica? I ricercatori hanno provato a stimolare l’attività di alcune aree del sistema emotivo (corteccia prefrontale e insula) per far recuperare ai pazienti obesi un equilibrio neurofisiologico che era andato perso durante gli anni di malattia. Equilibrio che si è perso a causa del sintomo principale di questi paziente che è la compulsione legata al consumo del cibo.

Le neuroscienze hanno ampiamente descritto il meccanismo che è alla base delle compulsioni comportamentali, caratterizzato dalla perdita di regolazione elettrofisiologica (es. ridotta attività metabolica, funzionamento o connettività) che viene a mancare tra il sistema del reward (nucleus accumbens, area ventrale tegmentale) e le strutture prefrontali (corteccia orbitofrontale e cingolo anteriore). Un’alterazione che non è solo funzionale ma anche strutturale. Alcuni ricercatori olandesi hanno, infatti, dimostrato che gli obesi hanno una riduzione della materia grigia nelle aree del piacere (sistema del reward). Gli autori suggeriscono che questa scoperta potrebbe fornire una fondamentale base organica al disturbo psichiatrico legato all’obesità. In altre parole, la compulsione al consumo di cibo può essere legata al tentativo (fallimentare) di arrivare ad una soddisfazione psicologica che non si riesce a placare a causa del malfunzionamento dell’area cerebrale del piacere. L’obesità non nascerebbe da un bisogno di saziarsi di cibo, ma di saziarsi del piacere primario che il cibo fornisce a livello neurochimico.

Come si diventa obesi

Quasi 2 adulti australiani su 3 sono in sovrappeso o obesi, mentre in Inghilterra, secondo le ultime statistiche epidemiologiche, siamo al 61% degli adulti in stato di sovrappeso o di obesità. In Italia nel 2015, risultavano più di un terzo della popolazione adulta (35,3%) in sovrappeso, mentre una persona su dieci è obesa (9,8%). Ma le statistiche sono in continuo aumento in tutto il mondo. L’obesità può nascere come conseguenza di un alterato comportamento alimentare che viene alimentato o rinforzato da due particolari fattori: uno sociologico e l’altro psicologico. A livello psicologico il principale substrato su cui poggia il comportamento compulsivo legato al cibo è la depressione. Mentre a livello sociale il più importante fattore che influenza l’insorgenza di questi fenomeni è lo stato economico.

Esiste un’antica quanto comprovata relazione tra basso livello socioeconomico, depressione e obesità. Da quello che emerge da numerose ricerche è che il livello economico si associa con un continuo disagio sociale e psicologico che può condurre a comportamenti alimentari orientati al cibo spazzatura, cioè basso prezzo e alto contenuto calorico. Questa tipologia di cibi ha una particolare proprietà: fornire un immediato e potente soddisfacimento sia a livello sensoriale ma soprattutto a livello cerebrale. Non è un caso che le attività commerciali come paninoteche e fast-food aumentano a dismisura e la guerra commerciale non si basa tanto sulla qualità del prodotto quanto sulla quantità. Secondo l’Università di Liverpool, è possibile rintracciare fenomeni di obesità in persone provenienti anche da fasce sociali agiate, sebbene la motivazione potrebbero essere differenti. Infatti, a differenza delle popolazioni svantaggiate, dove l’induzione di comportamenti patologici legati al cibo si associa non tanto al disagio di per sé, ma a strategie di gestione del disagio (es. "mangio per dimenticare, per non pensare"), nelle fasce di popolazione agiate è la noia (es. "mangio perché non ho niente da fare") il principale fattore scatenante il rischio di un’alimentazione emotiva.

I primi sintomi di comportamenti patologici legati al cibo si intercettano già a 7 anni, proprio nella fascia di età in cui il bambino esce dal nucleo famigliare per cominciare a confrontarsi con l’ambiente esterno (es. la scuola). I primi contrasti, problemi e delusioni, in aggiunta ad una situazione famigliare non capace di gestire o contenere lo stato di disagio emotivo del bambino/a possono contribuire ad amplificare il rischio di un’alimentazione emotiva. Rischio che aumenta con lo sviluppo se il bambino/a, diventando ragazzo/a apprenderà che per contrastare i momenti di disagio e di basso stato dell’umore il cibo è il rifugio migliore. Il legame tra depressione e obesità non è solo psicologico ma anche neurobiologico. Numerose sono le proteine che rientrano nei meccanismi patologici legati all’obesità. L’ultima descritta è la FKBP51, la quale se viene inibita non solo migliora lo status clinico degli obesi ma anche quelli dei pazienti depressi.

Altri ricercatori dell’Università di Glasgow, hanno pubblicato su Translational Psychiatry, dimonstrando come alcuni enzimi che vengono prodotti dall’ipotalamo quando si raggiunge il livello di sazietà sono coinvolti anche nei meccanismi della depressione. Il legame tra queste patologie è confermato anche dall’evidenza clinica che gli antidepressivi funzionano male negli obesi rispetto alla popolazione generale. Infine l’ultimo metodo per il trattamento dell’obesità, che è anche quello più conosciuto ma anche il più estremo perché utilizzato nelle condizioni gravi, è quello chirurgico. Tramite la chirurgia bariatrica è possibile effettuare una serie di interventi riducendo la dimensione dello stomaco con un bendaggio gastrico, mediante resezione chirurgica oppure attraverso la creazione di una piccola tasca gastrica collegata direttamente ad una sezione dell'intestino tenue.

Quale trattamento scegliere?

Considerato che per la sua natura cronica l’obesità va tenuta sotto stretto controllo medico, tra tutti i trattamenti proposti ce n’è uno che è poco conosciuto e pubblicizzato, ma che al momento è forse il metodo più efficace per lavorare sull’obesità soprattutto nelle fasi iniziali: la psicoterapia. In particolare, l’approccio cognitivo-comportamentale è quello che ha prodotto maggiori risultati sia a livello di perdita di peso nei pazienti obesi, sia nei pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica. È noto infatti che una buona fetta di pazienti sottoposti a trattamento chirurgico ritornano, comunque, a riprendere peso perché l’intervento non ha "curato" la natura del problema che non è sull’effettore finale (lo stomaco) ma sul centro di innesco della disfunzione comportamentale (l’area del piacere). Per questa tipologia di pazienti un trattamento psicoterapico prima e dopo il trattamento chirurgico previene fenomeni di recupero del peso e dei vecchie abitudini alimentari dannose.

Antonio Cerasa