Alla faccia del libero pensiero, della democrazia interna e del rispetto, il giudizio su Luigi Di Maio è stato sincero, insomma schietto. Tanto è vero che il padrone dei grillini, prima della riunione su "Giggino", dal balcone social, con le mani sui fianchi, ha gridato a tutti cosa fare, un aiutino a non sbagliare. Del resto da un movimento veterocomunista, forcaiolo e giustizialista, non ci si può aspettare certo il pluralismo di pensiero, l’espressione libera e il permesso di annunciare il vero. Infatti viene da ridere quando Salvini, per giustificare l’alleanza coi grillini, afferma che il suo nemico sia solo la sinistra: il ministro vuol farci credere che il diavolo si combatta andando a braccetto con lucifero.

Ecco perché alla fine della fiera, il problema è sempre quello: la scelta di campo e la coerenza; insomma un ritornello nelle mani degli elettori sia grillini e sia leghisti. I primi affinché chiariscano il giudizio sulla capacità del movimento di stare al comando, centrale oppure locale, a partire da Roma e dalla disfatta elettorale. I secondi perché una volta per tutte decidano se il nemico politico sia Berlusconi, che ha inventato il centrodestra, oppure Grillo che ha inventato il comunismo 4.0. Insomma la storia poi non è così difficile, basta uscire dal festival dell’ipocrisia e dell’incoerenza, per tornare a casa e alla naturale appartenenza.

Sia chiaro, dai risultati di domenica potremmo affermare che i leghisti siano felici del reddito di cittadinanza, dell’estromissione di Armando Siri, della prescrizione e del decreto dignità, tanto è vero che Salvini ribadisce l’amore coi grillini. Così come, dall’altra parte, la conferma per Di Maio lascia pensare alla felicità dell’autolesionismo, al piacere del dolore, perché magnificare un capo che perda 6 milioni di soldati, mica è da poco, ci sarebbe da sentire Freud. Eppure tant’è, dopo l’ennesimo teatrino il povero "Giggino" si ritroverà addirittura sotto due padroni: uno storico e assoluto, Grillo; l’altro tecnico e obbligatorio, Matteo Salvini. Bene, anzi male, se fossimo in poltrona a vedere un vaudeville oppure a leggere un’appendice di Carolina Invernizio potrebbe andare, ma siamo al Governo del paese in un momento difficile e particolare.

L’Italia infatti arranca, non cresce, i conti peggiorano e il sud si allontana ancora, la domanda interna è ferma e l’occupazione non migliora, gli immigrati espulsi restano, i nostri giovani se ne vanno. Dunque che vogliamo fare? Insistere a guardare il teatrino, le insolenze fra i soci di governo, gli ultimatum quotidiani, le liti frutto di un’alleanza perniciosa, lasciare l’Italia ad una maggioranza disastrosa? Oppure vogliamo un'altra cosa? Una politica nuova liberale, che abbia la cultura dello sviluppo e non delle marchette, della produzione di ricchezza piuttosto che l’esproprio, della creazione del lavoro anziché nullafacenza, del sostegno alle imprese e non ai furbetti e ai caporali. Insomma delle due l’una, o si sceglie la sceneggiata che vediamo e che vedremo se continuasse malauguratamente questa alleanza, oppure si torna al voto. Per parte nostra lo sappiamo, pensiamo in proprio e a farci prendere in giro noi non ci stiamo.

ALFREDO MOSCA