Un grande attore si racconta: ecco “Sold out”, l’autobiografia di Umberto Orsini (Laterza, 196 pagine, 18 Euro) curata da Paolo Di Paolo. Umberto Orsini nasce a Novara nel 1934 e a ventidue anni debutta in teatro con la Compagnia dei Giovani per poi lavorare sotto la guida dei maggiori registi italiani, da Franco Zeffirelli a Luca Ronconi. Nel cinema, dove ha debuttato con Federico Fellini ne “La dolce vita” nel 1959, sono famose le sue interpretazioni in film come “La caduta degli dei” e “Ludwig” diretti da Luchino Visconti. Ha lavorato anche con Luigi Magni (“La Tosca”, 1973), Florestano Vancini (“Il delitto Matteotti”, 1973), Liliana Cavani (“Al di là del bene e del male”, 1977), Marco Tullio Giordana (“Pasolini, un delitto italiano”, 1995), Sergio Rubini (“Il viaggio della sposa”, 1997), Guido Chiesa (“Il partigiano Johnny”, 2000, tratto dal romanzo di Beppe Fenoglio).

Ha recitato spesso in produzioni straniere e segnatamente francesi, tra l'altro con Pierre Granier-Deferre, Jacques Deray e Claude Sautet. Per la televisione il personaggio che gli ha procurato il maggior successo è l’Ivan dei “Fratelli Karamazov” per la regia di Sandro Bolchi. Il suo lavoro teatrale più recente è “Il costruttore Solness” di Ibsen, diretto da Alessandro Serra.

La prima cosa che mi viene da pensare quando sto per entrare in scena – confessa Orsini nel libro - è che anche quella sera mi capiterà di dire cose importanti, profonde, a volte spiritose, a volte drammatiche, raramente banali. E questo è un privilegio enorme. Sottrarre due ore del nostro tempo all’ovvietà delle parole quotidiane per dire parole scritte da altri è una cosa impagabile. Che ladro è l’attore, e nello stesso tempo che benefattore!”. Ma il libro è soprattutto fatto di incontri indimenticabili, colpi di fortuna, delusioni e difficoltà che precedono i grandi successi, sul palco come nella vita. Umberto Orsini ricama con maestria sull’aspetto romanzesco (pur senza mai cadere nel pettegolezzo) della sua vita: l’infanzia in provincia, l’incontro casuale con il teatro, l’esplosione di popolarità con la televisione e infine la maturità vissuta da “venerato maestro” anche grazie alla contiguità avuta con altri “venerati maestri” (Luchino Visconti, Romolo Valli, Rossella Falk, Luca Ronconi e tanti altri).

Chi conosce Orsini attore sa che, specie in questa sua più recente stagione, si staglia come uno dei nostri interpreti più sapienti: i suoi ottantacinque anni zeppi di esperienza di scena gli garantiscono una profondità che altri pur bravi attori non possono minimamente raggiungere. Eppure, in questa sua sommaria autobiografia di teatro in senso stretto ce n’è poco. Il racconto procede a saltelli, come in una confessione privata: la Novara della Seconda guerra e dell’immediata liberazione, poi la Roma della dolce vita, infine gli alberghi lussuosi di Londra, i ristoranti di Parigi e i locali di Los Angeles. Il libro “Sold out” risponde al criterio secondo il quale una vita è da raccontare solo se è eccezionale, ossia extra ordinaria. Le parti migliori del racconto sono quelle nelle quali traspare la quotidianità del mestiere d’attore: le prove, gli incidenti durante le repliche, i ritmi smorzati della vita da tournée.

C’è poi una pagina che ogni teatrante dovrebbe imparare a memoria: quella in cui Umberto Orsini racconta come “digerisce” i testi che deve interpretare. Gli attori si dividono in due grandi categorie: quelli che mandano subito e facilmente a memoria la parte da dire in scena (e dunque hanno più tempo ed energia, poi, per studiare l’interpretazione propriamente detta) e quelli che hanno una memoria ballerina e fino al debutto scordano una battuta o l’altra (e quindi raramente riescono a fissare la propria chiave di lettura emotiva delle parole e del personaggio). Naturalmente, Umberto Orsini fa parte di questa prima schiera e nel libro spiega dettagliatamente come fa a raggiungere il suo risultato: inizia da lontano, imparando tre righe al giorno ogni giorno per molto tempo, prima dell’inizio delle prove. Poi, una volta imparata, si ripete tutta la parte correndo con una matita in bocca. Un magnifico espediente per scandire le sillabe (e timbrare le finali, un vincolo tipico della lingua italiana e ostico a molti attori, oramai) e per dire le battute sotto sforzo con naturalezza. La differenza è che Orsini, come i grandi, oltre a saper recitare sa ascoltare gli altri personaggi invece di inseguire nella propria memoria ciò che deve dire. Il che è più raro di quanto si pensi.

La gran parte degli attori italiani d’oggi sono di stampo ottocentesco: si limitano a curare la propria interpretazione sovente dando l’impressione di dire o fare qualcosa solo perché l’hanno imparato a memoria. L’attore novecentesco (Eduardo De Filippo fu il primo e Orsini è di questo tipo) mette la propria nevrosi in relazione con quella degli altri; ma come se succedesse lì, in quel momento, casualmente davanti al pubblico. Insomma, “Sold out” si legge più come un romanzo che come un’autografia teatrale. Di sicuro ha pesato l’apporto di un ottimo narratore, Paolo Di Paolo, non propriamente interno al teatro.

Marco Ferrari