Dovevano essere, sia secondo la narrazione leghista che secondo quella pentastellata, le elezioni europee della svolta, una svolta sovranista ("meno Europa") o populista ("Europa del popolo e non più dell’establishment").

Invece, il risultato del voto – deludente per i Cinquestelle (17,7% e 14 eletti, 3 in meno del 2014) e trionfale per la Lega (34,3% e 28 eletti, 23 in più del 2014) – ha consegnato gli eurodeputati della maggioranza di governo italiano a una condizione di rumorosa solitudine: si vorrebbero determinanti, o almeno influenti, nella nuova legislatura; e invece sembra proprio tutto quel promettere grandi svolte sia stato molto clamore per nulla.

Perché da una parte la Lega non è ancora riuscita a convincere tutte le formazioni della destra nazional-sovranista a lasciare i loro attuali rispettivi gruppi politici per formare il "supergruppo" prospettato da Matteo Salvini (l’Alleanza europea dei popoli e delle nazioni); dall’altra, gli eurodeputati del M5s sembrano vagare come personaggi in cerca d’autore, dopo il totale fallimento del nuovo gruppo vagheggiato prima delle elezioni da Luigi Di Maio, per mancanza di eletti dei partiti, promessi alleati, negli altri paesi.