Ognuno lo ha ricordato a suo modo: chi con letture, chi con cene e chi con discorsi. Non è passato inosservato il ventennale della morte di Mario Soldati, avvenuta nella sua casa di Tellaro il 19 giugno del 1999. Una corona è stata deposta dal Comune di Lerici sulla targa che ricorda lo scrittore, poco prima di Piazza Rainusso a Tellaro. Al Castello di Lerici è stato inoltre presentato il libro "Mario Soldati – La gioia di vivere" di Pier Franco Quaglieni, edito da Golem Edizioni. Analoghe iniziative si sono tenute a Gavi, uno dei luoghi più cari allo scrittore piemontese, il primo vero gourmet italiano. Parli di Tellaro e parli di Mario Soldati. Ogni giorno lo scrittore, che abitava nella splendida villa di Trigliano, saliva verso il paese e giunto davanti alla casa del poeta Attilio Bertolucci tirava fuori dalla tasca un fischietto giallo da regista. Era il segnale che il poeta parmigiano attendeva per andare a prendere il caffè nella splendida piazzetta, palcoscenico degli incontri tellaresi. Lì, il dottor Maurizio Alpi la mattina riceveva gli amici al Bar Antonia e il pomeriggio riceveva le puerpere e le future madri al Bar delle Ondine, seguendo l’andamento dell’ombra. Le sere, nella sua casa piena di ospiti, Mario Soldati era un diluvio di aneddoti e racconti, visione di film e partite di scopone. Il padrone di casa, da vecchio era un uragano di idee e progetti, sempre col suo consueto cipiglio burbanzoso, da regista, ma in fondo bonario e bonaccione, quasi infantile. Lottava inesorabilmente contro l’isolamento, la vecchiaia, l’artrosi, la memoria che gli portava via i nomi, le date, le circostanze.

Qui ha passato gli ultimi trent’anni di vita. Era giunto per la prima volta nel 1958 sulle tracce di un'improbabile cassapanca dove D.H. Lawrence avrebbe lasciato libri, giornali, fogli di appunti, manoscritti inediti, ammonticchiati e confusi, nel 1919, alla fine del suo secondo breve soggiorno, quando se ne era andato da Fiascherino con l’idea di ritornarci. Quando i bagliori del sole superavano il Golfo dei Poeti e il mare si increspava di grigio, come un rito serale Soldati si vestiva come se dovesse andare in città, giacca, panciotto, farfallino e bastone e raggiungeva la terrazza di pietra davanti a Tellaro. Finché le gambe lo hanno retto, tenendosi ad un corrimano fatto costruire apposta nel giardino e munendosi di guanti assai solidi per non ferirsi i polpastrelli, lo scrittore si faceva accompagnare alla vista del tramonto. Ogni passo una sosta, un aneddoto, il profumo di una donna, il ricordo di un amico. Come il comandante di una nave, sul quel cassero Soldati voleva restare solo col respiro della sua anima. Forse era l’unico attimo in cui dimenticava il palcoscenico della sua frizzante e fiammante esistenza, il rumore dei set, il chiasso delle redazioni, le risate delle combriccole, i commenti alle partite di scopone, la festosità della famiglia e invocava, come aveva fatto col suo ultimo libro, significativamente intitolato "Le sere", il sapore del crepuscolo e l’abitudine a vedere oltre il sipario degli nostri occhi terreni. I suoi, già velati dalla miopia e dall’età matura, intravedevano oltre l’orizzonte sempre più labile i tanti personaggi di carta o di celluloide che aveva offerto ad un pubblico che lo avevo sempre seguito e amato. Il pomeriggio raggiungeva lo studio al primo piano con l’ascensore, una antica cucina trasformata in una sorta di redazione.

Tra scaffali pieni di libri, ritagli di giornale e fotografie Soldati componeva il giornale della sua vita: il lavoro di giornalista, reporter televisivo, scrittore e regista, i grandi incontri, gli statisti, le donne, i personaggi, i viaggi, le occasioni perdute. E soprattutto progettava, fantasticava, inventava articoli e titoli, come un vero direttore di un quotidiano che non sarebbe mai uscito da quelle mura. Gli bastava un biglietto da visita, una lettera spedita da Cinecittà, un appunto sulla seconda guerra mondiale, la foto di un’attrice o una cartolina di New York per scatenare la ricerca dell’impossibile: un libro non finito, una sceneggiature lasciata a metà, un articolo mai spedito, un amore appassito, un’amicizia troncata. O per farci capire da dove erano scaturiti i protagonisti dei suoi romanzi più noti, da "Salmace" a "America primo amore", da "Le lettere da Capri", da "I racconti del maresciallo". Dopo cena tornava ossessivamente al cinema, al suo cinema, naturalmente, l’attività che può amava tra le tante che aveva realizzato nella poliedrica esistenza. Confessava che il suo rammarico era quello di non essere riuscito a mettere in pellicola il racconto dell’amico Graham Greene, "L’ultimo papa" e telefonava a Bernardo Bertolucci, invocandolo di leggere quella storia e di scriverne una sceneggiatura. Ma, come si sa, non se ne fece nulla.

Al centro della sala un televisore gigantesco, come un catafalco, proiettava le immagini sfuocate dei suoi film: "Policarpo", oppure "Fuga in Francia", "Le miserie dei signor Travet", "Quartieri alti" e poi "Malombra" e "Piccolo mondo antico". Possedeva ventotto casette finché, per completare la filmografia ufficiale, rintracciai alla Cineteca Regionale di Firenze una copia di "Jolanda, la figlia del corsaro nero" e "I tre corsari". Vedendoli, improvvisamente tuonò, "Non sono miei!". Come? "Ho messo solo la mia firma, ho seguito qualche scena, all’epoca facevo due o tre film l’anno, davo un’occhiata a Jolanda e preparavo La Provinciale da Bassani che mi interessava di più". Poi, pian piano, alla seconda o terza visione prendeva confidenza con quei film cappa e spada: "Non sono male in fondo, guardate questa scena, è ben girata, l’attrice l’ho trovava io in Svezia, faceva la cassiera, si innamorò di me e la portai a Roma. Ah, questo primo piano è perfetto. Sì, sono dei buonissimi film d’avventura e d’ironia!".

Una sera, poi, propose l’ennesima visione ad Arrigo Petacco, uomo assai sincero e diretto, il quale sbottò: "Ah, Mario, li ho già visti tutt’e trenta". "Trentuno" borbottò il regista. In quell’occasione Soldati tirò fuori dalle mille sorprese dell’esistenza un altro inedito, "La mano dello straniero", un film girato nel 1953 e mai distribuito perché il quell’anno morì Stalin. I titoli erano stimolanti: soggetto di Graham Greene, sceneggiature di Giorgio Bassani, musica di Nino Rota, interpreti Alida Valli, Richard Baseart e Arnaldo Foa. Una pellicola in bianco nero girata in una Venezia invernale in cui un giovane inglese cerca il padre rapito dagli agenti segreti sovietici. "Guardalo, è bello, è il più bello!" gridava prima di fingere di appisolarsi. Si risvegliava all’improvviso e ti richiamava all’ordine: "Ma lo stai guardando? Lo stai guardando bene? Hai visto com’è bella Alida Valli. Bella come Jucci, lo sai, sono tutt’e due di Fiume". In fondo più di tutti adorava "Policarpo, ufficiale di scrittura" che aveva diretto nel 1959 e presentato in concorso al 12º Festival di Cannes vincendo il premio come miglior commedia. Tratto dal romanzo "La famiglia De' Tappetti" di Luigi Arnaldo Vassallo, anche noto come Gandolin, pubblicato nel 1903, era interpretato da un magistrale Renato Rascel. Un personaggio che, in fondo, aveva l’aureola surreale che possedeva anche Soldati.

Marco Ferrari