Scudo, decreto, immunità e accordi. Parole che a Taranto, specie in queste ultime settimane, fanno rima con acciaio. L’acciaio dell’Ilva, quella che fu la più grande acciaieria d’Europa e una delle più grandi inquinatrici d’Italia e che ora, tra tira e molla, acquisizioni, promesse mancate e patti infranti rischia di diventare un ricordo. Relegando in un angolo di memoria anche migliaia di posti di lavoro e, soprattutto, l’acciaio italiano. Il destino dell’Ilva occupa e angoscia i tarantini, gli italiani e i vari governi che si sono susseguiti alla guida del Paese ormai da molti anni.

La cessione dell’impianto al gruppo franco-indiano ArcelorMittal sembrava essere la soluzione. Imperfetta, certo, ma probabilmente l’unica sul tavolo. Imperfetta anche perché la fabbrica in questione portava in dote una serie di criticità ambientali. Come ha riconosciuto la ministra per la Salute Giulia Grillo nell’area intorno alla fabbrica il tasso di mortalità è superiore a quello che si registra altrove. E la colpa è della fabbrica e dell’inquinamento che produce.

Criticità così grandi che all’acquirente, per convincerlo ad entrare a Taranto, era stato offerto una sorta di scudo che l’avrebbe protetto dalla legge in cambio dell’impegno a mettersi in regola dal punto di vista ambientale entro un tempo stabilito. Una promessa che il governo ha appena ritirato attraverso il decreto crescita. Marcia indietro che non è ovviamente piaciuta ad ArcelorMittal, e questo importa sino ad un certo punto, e che, cosa ben più importante, pone un serio dubbio sul futuro dell’impianto.

Se infatti la revoca dello scudo, e quindi la rottura di quello che era un accordo sottoscritto e in vigore, ci espone come Paese, come Italia, al rischio delle richieste danni del colosso siderurgico, i rischi più grandi sono quelli legati ad un eventuale stop dell’impianto. I contratti prevedono sempre delle penali nel caso una delle due parti non adempia a quanto concordato. Penali che nel caso di contratto miliardario sono salate, decisamente salate. Tanti soldi che ci potremmo trovare a dover pagare ma che sono bruscolini rispetto allo scenario peggiore che si prospetta. Se il governo tutto ha infatti revocato lo scudo, è la meta grillina dell’esecutivo a spingere il ragionamento alle estreme conseguenze, dicendosi sostanzialmente disposto a far chiudere l’Ilva.

I pentastellati come l’euro-deputata Rosa D’Amico la chiamano “riconversione economica” e sostengono che il Movimento è pronto “a dare fiato ai veri imprenditori che vogliono investire in uno sviluppo sano, duraturo e sostenibile”, ma il senso non cambia ed è chiaro. Intanto, mentre 1400 lavoratori dell’Ilva saranno in cassa integrazione per le prossime 3 settimane, val la pena provare a ragionare su cosa una chiusura dell’Ilva significherebbe. L’ambiente certo ne beneficerebbe, e con lui la salute dei tarantini, specie quelli che vivono nelle zone più vicine all’impianto. Ma meno di quel che si potrebbe pensare.

L’impianto di Taranto, per non essere inquinante, ha bisogno di bonifiche ed interventi. Operazioni che costano e che senza un proprietario disposto a realizzarle, magari in cambio di uno scudo temporaneo, sarebbero a carico della collettività. E sono già troppi i siti che la collettività aspetta di veder bonificati da tempo immemorabile per non temere che una bonifica pubblica dell’Ilva potrebbe essere una delle tante opere da fare ‘poi’. Con l’Ilva chiusa ci sarebbero poi evidenti ed immediate ricadute occupazionali, cioè un sacco di gente perderebbe il lavoro. Anche qui, per far fronte a questo aspetto, servirebbero investimenti. Investimenti in grado di creare altro lavoro e investimenti che, se non arrivano dal privato, si chiamano opere pubbliche.

Come sempre però il dolce lo si tiene per la fine e il dolce, in questo caso, è amaro ed è l’acciaio. Senza Ilva la produzione italiana di acciaio sarebbe pressoché un ricordo e quella siderurgica è, più o meno da quando è nata, un’industria strategica per il nostro come per tutti i Paesi industrializzati. Se non lo produciamo dovremmo comprarlo, e allora speriamo di avere l’euro e non aver litigato troppo con l’Europa perché altrimenti il conto sarà davvero salatissimo.

di ALESSANDRO CAMILLI