Dieci anni fa, due gravissime crisi dei prezzi alimentari colpivano con violenza la vita di milioni di persone, tra le più povere al mondo. Donne e uomini principalmente dedite all’agricoltura di piccola scala che - tra il 2007- 2008 e il 2010-2011 - hanno paradossalmente subito il contraccolpo più forte di una crisi causata da una concatenazione di diversi fattori, accomunati però da un unico denominatore: politiche discriminatorie che non mirano a soddisfare il diritto al cibo di tutti, ma a promuovere modelli di produzione e di consumo iniqui e inquinanti, che minacciano la salute e l’ambiente.

Dieci anni dopo, le nuove stime delle Nazioni Unite sullo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo ci confermano che nulla da allora è cambiato. Nel 2018, per il terzo anno di fila, il numero di persone colpite da fame e malnutrizione nel mondo è tragicamente cresciuto, superando gli 821 milioni. La fotografia presentata lunedì scorso a New York racconta infatti una realtà drammatica, accolta dal silenzio assordante di quella stessa comunità internazionale che nel 2015 ha beffardamente lanciato l’ambizioso obiettivo di azzerare la fame entro il 2030. Salvo poi non compiere alcuno sforzo per affrontare le cause strutturali di una crisi prevedibile.

LA “TEMPESTA PERFETTA”

La fame non è mai un fenomeno casuale, ma è figlia di un sistema alimentare globale che mette sempre di più gli interessi commerciali, davanti ai bisogni delle comunità più povere e vulnerabili. Il tutto, in un contesto geopolitico globale in cui il protrarsi di conflitti atroci e l’acuirsi di fenomeni climatici estremi, si uniscono agli effetti di decenni di politiche economiche che alimentano le disuguaglianze tra grandi oligopoli transnazionali del cibo e milioni di produttori di piccola scala, da cui dipende la maggior parte della produzione alimentare globale. Il risultato, ad esempio in molti paesi dell’Africa sub-sahariana, è che decine di milioni di persone in questo momento sono allo stremo, a causa di conflitti regionali o di siccità durissime e sempre più prolungate che impediscono l’accesso a cibo e a mezzi di produzione.

Come nel Sahel, una delle regioni del mondo al momento più colpite dalla crisi alimentare, dove oltre 22 milioni di persone sono allo stremo, metà della popolazione non ha accesso all’acqua potabile, si contano 4,2 milioni di sfollati e più di 7 milioni di persone – di cui 5 milioni di bambini sotto i 5 anni - colpiti da malnutrizione acuta. Qui come Oxfam siamo al lavoro in paesi come Mauritania, Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad e Nigeria per migliorare l’accesso all’acqua pulita e ai servizi igienico sanitari, al cibo e all’istruzione, ai tanti che hanno perso tutto a causa della guerra, dell’impatto climatico, con l’obiettivo di raggiungere centinaia di migliaia di persone entro la fine dell’anno.

IRRISORIO L’IMPEGNO ITALIANO PER LA LOTTA ALLA FAME

Per l’Italia, la promozione della sicurezza alimentare, dell’agricoltura e dello sviluppo rurale rappresenterebbe da molti anni uno dei pilastri della politica di Cooperazione Italiana allo Sviluppo. Ma nonostante i proclami, il livello di impegno finanziario del nostro Paese risulta costantemente inadeguato. Nel 2017, l’Italia, stando ai dati OCSE, ha destinato solo l’1,7% dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS) alla cooperazione bilaterale, a sostegno dell’agricoltura e dello sviluppo rurale. Una percentuale irrisoria per la sfida in essere e in diminuzione rispetto agli anni precedenti. Il tutto sullo sfondo del crollo dell’impegno italiano nello stanziamento dei fondi alla cooperazione. Nel 2018 infatti, come documentato da un recente rapporto realizzato da Oxfam e Openpolis, l’aiuto allo sviluppo italiano è calato di addirittura oltre 860 milioni di euro, segnando un -21,3% rispetto al 2017. Mentre gli aiuti italiani verso i Paesi dell’Africa sub-sahariana - dove la fame è la prima minaccia per la sopravvivenza di decine di milioni di persone - sono addirittura calati del 35,5%.

Per contrastare questa deriva è quindi necessaria una chiara inversione di marcia da parte dei principali attori internazionali, in grado di mettere al centro i diritti umani e costruire un sistema alimentare equo e sostenibile. Invertire la rotta significa innanzitutto investire maggiormente nell’agricoltura di piccola scala. Ma significa anche intervenire per una riduzione massiccia delle emissioni di gas serra, prodotte in buona parte da un modello di agricoltura intensiva e quindi insostenibile per l’ambiente. Sostenendo in parallelo l’adattamento dei piccoli agricoltori, soprattutto nei paesi poveri, a un clima sempre più estremo e instabile.

È inoltre fondamentale mettere al centro dei programmi di aiuto allo sviluppo le tantissime donne che lavorano in agricoltura, che pur rappresentando oltre la metà dei produttori agricoli nei paesi in via di sviluppo, spesso sono le più discriminate e colpite dalla malnutrizione. Di fronte a tutto questo perciò chiediamo con forza al Governo italiano e alla comunità internazionale di fare di molto di più, mantenendo le promesse fatte con maggiori investimenti e politiche mirate a sostegno dei piccoli produttori agricoli del Sud del Mondo. Ne va prima di tutto del futuro di milioni di persone, che devono la propria sopravvivenza all’agricoltura di piccola scala nei paesi poveri. Nel medio periodo del futuro del pianeta, quindi di tutti noi!.

di GIORGIA CECCARELLI