Il rischio è forte, non solo palpabile. Al netto di poterli gustare a casa propria, per mangiare un buon piatto di cannelloni o di lasagna forse saremo costretti a volare a Los Angeles, a Sydney o Dubai. Fate un po’ voi, la scelta diventerebbe libera. Ma come proprio a noi italiani, padri della buona cucina, dovrebbe toccare una simile iattura? Sì, proprio vero: in Italia è in atto un’autentica fuga degli chef. Fornelli in fuga all’estero, non esclusa la Thailandia. Dove furoreggia, per dirne uno, ma è solo un esempio pescato a caso, Miro Mattalia. Trentanove anni, da un mese e mezzo a capo del ristorante Appia a Bangkok. Lui in Thailandia, i suoi colleghi parimenti in fuga dall’Italia. Stati Uniti, Germania, Svezia, Svizzera, Australia, Canada, Emirati Arabi. Scappano, fuggono, e ormai costituiscono un nutrito gruppo.

Perché i nostri chef lasciano l’Italia, impoverendo i fornelli del Paese maestro indiscusso di cucina, alta e media, in concorso con i francesi? Paghe migliori e ritmi più accettabili, queste in sintesi le ragioni che spingono i giovani chef italiani a scegliere di lavorare all’estero. In Italia un executive chef, un capo cuoco, guadagna mediamente 1.700 euro al mese, come da retribuzione tabellare. La retribuzione può arrivare fino a 3.000-6.000 euro e/o eventuali percentuali sugli incassi a seconda del livello del ristorante. Il sous chef o vice capo cuoco può raggiungere una paga compresa tra 1.700 e 4.000 euro. Il commis, cuoco semplice, può godere di una paga base di 1.000 euro. In Svizzera un professionista di buon livello guadagna mediamente 3.000 franchi, pari a 2.700 euro. Negli Stati Uniti l’executive chef va da una paga annuale tra i 45mila e 100mila dollari. Le figure non apicali, non al vertice, dispongono di una paga base che varia da città a città in base al costo della vita. Quindici/venti dollari a Washington.

Quanto lavorano gli chef italiani all’estero? "Quaranta ore settimanali, ma si può arrivare a cinquantacinque", informa Fabio Trabocchi, marchigiano di Osimo, partito dall’Italia a ventuno anni, dopo esperienze anche presso Gualtiero Marchesi. "Ogni ora successiva alla quarantesima viene pagata come straordinario una volta e mezza". Trabocchi si è costruito la strada dal 2011, a Washington il primo ristorante che ha aperto, poi altri cinque. Uno a Miami. Con il locale gourmet Fiola DC è l’unico italiano di prima generazione decorato con una stella Michelin negli Stati Uniti. Trabocchi occupa 550 persone con un fatturato di 50 milioni di dollari. I dieci maggiori ristoranti italiani mettono insieme ricavi per 70 milioni di euro. In Italia sarebbe stato possibile? "Non saprei, ma il fatto vero è che ancora oggi gli Stati Uniti offrono occasioni. È il posto dove io e la mia moglie spagnola siamo riusciti a realizzare il nostro sogno partendo con modeste risorse. Qui gli investitori si trovano, ma sono esigenti rispetto alla redditività degli investimenti". E ai giovani cuochi italiani consiglia col cuore di dedicare "i primi cinque anni di carriera di lavoro all’estero senza pensare alla retribuzione, ciò fatto ognuno troverà la propria strada".

L’Inghilterra indicata come la meta giusta in Europa. Casi emblematici, quelli di Miro Mattalia e Niko Romito, chef decorato con tre stelle Michelin. Conduce un’accademia per giovani cuochi e il ristorante Reale a Castel di Sangro. "In Italia la formazione è eccellente, altissimo però il costo del lavoro. Oggi grazie all’enorme domanda di made in Italy, i nostri chef hanno la possibilità di scegliere in tutto il mondo". L’Italia poco può fare per trattenerli. La figura del cuoco italiano è molto richiesta all’estero. Dove le economie viaggiano molto più veloci della nostra e offrono stipendi più alti e condizioni migliori. Da noi il mercato del lavoro ristagna. Laddove – secondo una ricerca Eurostat – in Europa ci sono circa quattro milioni di posti vacanti; 1.2 milioni solo in Germania. Cuochi e camerieri censiti in grande quantità. Si assiste quindi a uno strano fenomeno: i lavoratori provenienti da Asia e Africa cercano fortuna nelle cucine italiane, gli italiani la inseguono in Europa, negli States, a Singapore, in tutto il mondo.

"Da noi si lavora per troppe ore e si guadagna proporzionalmente poco", precisa non senza tracce di forte rammarico Luciano Toma. Direttore per dieci anni della più importante scuola di formazione per cuochi d’Italia, l’Aima, oggi è il presidente dell’Accademia Bocuse. "Alcuni chef italiani abbandonano, in tanti cercano invece opportunità altrove". Esemplare il caso di Miro Mattalia. Partito ventenne dall’Italia, è tornato, ma non ha resistito più di cinque anni. "In Italia gli imprenditori non hanno la possibilità di fidelizzare i dipendenti, non esistono i margini a causa dell’eccessiva tassazione. In Thailandia pago una media del sette per cento di imposte, il mio titolare copre l’assicurazione medica per me e la mia compagna e ci rimborsa un viaggio l’anno per tornare in Italia". Quando ha lasciato l’Italia in seguito a una chiamata dalla Thailandia, ha trovato lavoro a Bangkok "in meno di cinque minuti d’orologio". Non tornerà, ha buttato persino via la sim italiana.

Uguale e preciso il sardo Simone Tondo, recentissima stella Michelin nel suo bistrot Racines, a Parigi. Ha iniziato la carriera all’estero a venti anni. "In Italia i vecchi non passano mai il testimone ai giovani. Sarei felice di tornare, ma vedo il Paese bloccato, ingessato". E la fuga dei fornelli prosegue, ormai non più arrestabile.

Franco Esposito