Che ci sarà mai da divertirsi? Ore 15,30 nell’aula del Senato della Repubblica, il Premier, ormai sull’orlo di diventare ex premier, parla da almeno 15 minuti, e sotto la volta affrescata della sala si accumula verso l’alto un’energia frizzante, di quelle allegrie contenute che accompagnano a volte i matrimoni, o le partite. Applausi, risate, interruzioni. Va bene che ormai non capitava da anni che un governo cadesse in aula, che per ricordare un altro momento come questo bisogna andare un bel po’ indietro, al 2008 in cui Prodi inciampò in un ormai dimenticato senatore trotzkista Franco Turigliatto, o al 1994 di Berlusconi defenestrato da un anonimo Dini; ed è altrettanto vero che la caduta di tutte le cadute, quella del 2011 di Silvio, fu festeggiata nelle piazze, ma mai passò per le aule del parlamento, derubate da tanto dramma da una scelta (giusta) del Cavaliere di ammettere la sconfitta andando direttamente al Quirinale; ma insomma, anche se sarà per una sindrome di post deprivazione da dramma da caduta di regime, certo l’atmosfera di contenuta allegria non pare proprio adatta – almeno a chi è qui ad assistere.

Si tratta dopotutto di un vero dramma, se non per la Repubblica (a non voler essere troppo istituzionali) ma di sicuro per un governo del cambiamento arrivato in queste aule come uno tsunami, e che sembra invece uscire di scena come il ritiro di una esondazione di pioggia dai marciapiedi. Eppure, eppure, eppure…di dramma non se ne respira un grammo, un fiato, un refolo. Siamo, piuttosto, nel catalogo commedia umana, o, più precisamente, commedia e basta. L’arrivo di questo giorno atteso ormai da settimane si preannuncia eccessivo fin dalle strade esterne del Senato – la polizia, in uno di quei giorni in cui pare che le forze dell’ordine abbiano scelto tutti i loro uomini che non hanno mai letto un giornale o visto un telegiornale, ferma assolutamente tutti, senatori, inconsapevoli passanti americani, giornalisti, e curiosi, al punto che il Senatore pentastellato Morra sulla porta laterale del Senato prende il posto dei portieri e recupera quanti può dallo sbarramento militare; sul portone centrale invece si riversa da Piazza Navona il vocio di una manifestazione che, sotto una grande bandiera tricolore, e con l’accompagnamento degli slogan "elezioni,elezioni" e "vergogna, vergogna", canta Fratelli d’Italia, sgomitando per lo spazio con turisti che non intendono perdere la visita alla Fontana dei Fiumi.

Dentro il Senato l’emiciclo, con tribune piene fino al soffitto, è in buon anticipo trasformato in un teatro di guerra. O meglio, rappresentazione della guerra. I pentastellati di governo sono arrivati con buon anticipo per poter occupare come dimostrazione di presenza tutte le sedie del governo, le fragili poltroncine dorate strette strette dentro lo scarso spazio sotto il banco della Presidenza. La Lega invece si fa aspettare, ma non c’è posto per nessuno dei suoi ministri. A un certo punto come nei teatri, la platea e il palco sono pieni, mancano solo i due attori principali, che si presentano in perfetta sincronia, a pochi minuti l’uno dall’altro, prima Salvini, con tutti i suo ministri, e l’aula salta in piedi fra applausi e buuu. La figura alta del leghista si fa seguire con facilità nella ressa dentro l’emiciclo: va al banco del premier e vicepremier, fa spostare con un gesto un ministro pentastellato e ne prende il posto, a una poltrona vuota di distanza da Di Maio, come nel funerale di Genova; i ministri leghisti si mettono in formazione a ventaglio dietro di lui, ma in piedi, e solo il Giorgetti stringe la sua imponente figura su una sediolina in prima fila governativa esattamente in mezzo, davanti a quella di Conte.

Conte che a sua volta arriva invece da solo, fra applausi e buuu, e fa un lungo percorso per salutare tutti, ma proprio tutti, inclusi i ministri leghisti in piedi, tutti eccetto Salvini che circumnaviga con cura, senza mai toccarlo, senza mai guardarlo. Salvini che invece prende appunti, saluta i suoi, sorride, fa ampi gesti, e posa un voluminoso rosario di legno sul tavolo del governo. Quando il premier pronuncia infine, con la sua esse un po’ sibilante, il suo Signore Senatrici, Signori Senatori, l’aula è già a un numero di giri da Harley- Davidson. I Senatori leghisti in cima verso il centro stringono le mani intorno all’orlo dei banchetti, pronti a farle scattare in applausi, o a gesticolare il loro dissenso; i 5stelle siedono stretti stretti, nessuno assente, sull’orlo dei sediolini di legno, pronti a scattare per rispondere in rima ai leghisti. Ma i più eccitati sono i senatori e ancor di più le senatrici del Pd, sui cui volti si stampano ampi sorrisi, il più smagliante di questi sorrisi è quello del senatore Renzi. L’odore del sangue è quasi avvertibile persino dalle tribune, come il sospetto che stavolta c’è rischio che si finirà alle mani. Non che la relazione del premier avvocato del popolo trascini l’onda delle emozioni.

Conte, coerente con quella che è stata la parte che si è accollata nel manicomio che è stato questo governo, sceglie per il discorso di addio la nota dell’assoluto rispetto delle istituzioni, e, ancor di più, delle tradizioni. Unico uomo in pochette in un emiciclo che abbonda di uomini in giacche di cotone stazzonato e donne in abiti colorati, lui spiega che nella sua nota "non c’è il vezzo di un giurista né tantomeno è dettata da un moto di orgoglio personale. Nasce dalla convinzione che il confronto in quest’Aula - franco, trasparente - sia lo strumento più efficace per garantire il buon funzionamento di una democrazia parlamentare. Non si tratta di rendere omaggio a mere regole di forma, bensì di rispettare regole che implicano "sostanza politica", poste a presidio della piena tutela dei diritti di tutti cittadini". Una nota di nostalgia colora queste parole: "La politica dei nostri giorni si sviluppa, per buona parte, sul piano comunicativo, affidandosi a un linguaggio semplificato. È il segno inevitabile dei tempi." A questa frase alza finalmente gli occhi Salvini e rivolge un sorrisetto ai banchi dei suoi, come dire, " ma sentite questo qui". Ma, continua Conte, "Io ho garantito sin dall’inizio che questa sarebbe stata un’esperienza di governo all’insegna della trasparenza e del cambiamento, e non posso permettere che questo passaggio istituzionale così rilevante possa dipanarsi a mezzo di conciliaboli riservati, di comunicazioni affidate ai social o di dichiarazioni rilasciate per strada o nelle piazze, senza un pieno e ufficiale contradditorio".

Salvini tiene il suo sorriso e continua ad accennare con il capo. L’Avvocato arriva infine all’arringa, ordinatamente organizzata per punti numerati. La decisione della lega è grave perché "interrompe un’azione di governo che procedeva operosamente ", perché "viola il contratto sottoscritto", perché "espone il paese a rischi gravi", e perché "arriva in un momento grave nella interlocuzione europea". Salvini accompagna il crescendo con un movimento della mano come a imitare un violino, dai suoi banchi lo sostengono con risate e quando arriva l’accusa chiara di "Irresponsabile", le urla sopraffanno le parole del Premier, che alza i toni su un passaggio chiave "Quando una forza politica si concentra solo su interessi di parte e valuta le proprie scelte esclusivamente secondo il metro della convenienza elettorale, non tradisce solo la vocazione più nobile della politica, ma finisce per compromettere l’interesse nazionale". Da questo momento in poi è impossibile seguire davvero gli eventi. Il capo leghista fa smorfie, ride, sottolinea con un rotear di occhi il suo stupore a certe affermazioni. I Cinque Stelle contrattaccano con frenetici applausi, e dai banchi del Pd esplode una sorta di gioia scherzosa che celebra quella schermaglia. Fra i tanti passaggi uno decisamente aumenta il voltaggio in aula: "Far votare i cittadini è l’essenza della democrazia. Sollecitarli a votare ogni anno è irresponsabile".

Ora diviene difficile persino sentire. L’emiciclo diventa leggibile solo attraverso il movimento dei corpi. I corpi dei ministri leghisti in piedi che cominciano a vagare dappertutto, i gesti di vaffa che partono dai banchi dei 5S. Quando il premier rimprovera a Salvini la commistione fra simboli religiosi e politica Salvini bacia ostentatamente il suo crocifisso. E quando Conte decide infine per l’affondo finale dell’attacco al vicepremier, la pazienza del leghista e dell’aula tutta va infine in frantumi: "Se tu avessi accettato di andare al Senato per riferire sulla vicenda russa, una vicenda che oggettivamente merita di essere chiarita anche per i riflessi sul piano internazionale, avresti evitato al tuo Presidente del Consiglio di presentarsi al tuo posto, rifiutandoti, per giunta, di condividere con lui le informazioni di cui sei in possesso". La Russia è il punto di non ritorno, l’unica vera batosta che Conte cala sulla testa del quasi ormai ex ministro degli Interni. Che, al momento del suo turno per prendere la parola con spettacolare camminata lascia la sedia di vicepremier e raggiunge il suo posto fra i banchi per parlare, come gli è stato chiesto dalla Presidente del Senato, da rappresentante di partito e non del governo. La Presidente Casellati applica, con questa richiesta, una regola, ma la regola prefigura già una rimozione, la fine, per Salvini, di un luogo, di un tempo oltre che di un governo.

Il Vicepremier- ancora- per- poco, parla da "uomo". Inizia con un apodittico "io non ho paura" e un inno agli uomini e alle donne libere che sono quelli che non sono attaccati alle poltrone. Il riferimento alle poltrone è fatto così spesso da far concorrenza alla pubblicità di "poltrone&sofà". Si levano insulti, vai a casa, si levano pagine con scritte, passate poi di mano in mano, per non farle catturare dai fattorini che vogliono sequestrare i fogli. È impossibile descrivere oltre. Va tutto avanti così, quasi fino ad esaurimento. Con Renzi che chiude la triade dei protagonisti, aggiungendo le sue tifoserie, le sue frasi ad affetto, le sue promesse/minacce " non farò orgogliosamente parte di un nuovo governo". Il governo che doveva durare un intero ciclo rivoluzionario, il governo che ha minacciato di uscire dall’Europa, che ha minacciato le grandi imprese, che ha promesso la fine della povertà, ma anche il condono fiscale, le grandi opere e il blocco della Tav, che ha minacciato di tagliare i fondi all’editoria e ha insultato i giornalisti, che ha difeso la chiusura dei porti, ed ha giustificato la legittima difesa, il governo che si è attirato insieme accuse di giacobinismo e fascismo, questo enorme calderone giallo-verde che tutti i politologi del mondo hanno studiato e descritto, e su cui la classe dirigente di è divisa ed accapigliata, insomma tutto questo anno furibondo e incomprensibile, questo enorme abbraccio fra storie diverse che si sono tuttavia fuse e incoraggiate a vicenda, finisce immerso in questo suk di accuse e recriminazioni. Un grande rito di scaricabarile reciproco sulle colpe e le innocenze, in cui, ironia della sorte, la frase che ne segna la fine, pronunciata da Conte: tutte queste cose "mi impongono di interrompere qui questa esperienza di governo", proprio la frase a cui avremmo dovuto sobbalzare e che avremmo dovuto ricordare, finisce affogata in quel rumore di fondo che prova che l’aula del Senato somiglia terribilmente a un mercato del pesce.

Lucia Annunziata