Vedremo fra poche ore se prenderà corpo il Governo Pd-M5S, che ha la sua motivazione a esistere quasi esclusivamente fuori dall’Italia. Infatti il "contesto" internazionale (ed europeo in particolare) non ritiene ammissibile fare sconti ai partiti sovranisti, che debbono essere marginalizzati con le buone o, all’occorrenza, anche con le cattive maniere (si torni al voto del 16 luglio a Strasburgo per Ursula von der Leyen per cogliere il vero momento di svolta in tutta questa storia).

È però interessante concentrarsi un momento sulle parole di Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi all’uscita dal colloquio con il Capo dello Stato, parole che hanno evocato con forza un rapido ritorno alle urne in vista di un governo espresso dal centro destra, unica coalizione (a loro dire) credibile per governare, coesa al suo interno e dotata del consenso sufficiente tra gli elettori. Ebbene qui occorre ricordare come l’area politica di destra (lasciamo stare il centro, che tanto c’è comunque, sia di qua che di là) ha saputo rapportarsi con la funzione governo in questi anni, anche perché bisogna essere franchi, a costo di irritare qualcuno. In soldoni questo rapporto è stato semplicemente disastroso, al punto che quattro volte su quattro è finito in un collasso della coalizione e tre volte su quattro nella fine prematura del governo.

Riavvolgiamo il nastro, così ci capiamo meglio. Primo momento di questa storia: il governo Berlusconi del 1994. Dura sette mesi, il Cavaliere litiga con Bossi e si sfascia tutto prima di Natale, con arrivo di Lamberto Dini a Palazzo Chigi. Secondo momento: i governi Berlusconi dal 2001 al 2006. La coalizione (con Bossi, Fini e Casini) regge per l’intera legislatura e come tale si presenta anche alle elezioni del 2006, ma subito dopo si apre il conflitto con la parte più moderata, che porta all’uscita dell’Udc, che va da sola alle elezioni del 2008.

Terzo momento: il governo Berlusconi del 2008. Le tensioni con Fini iniziano nel 2009 e si consumano nel 2010, con l’uscita dalla maggioranza di un gruppo di parlamentari fedeli al Presidente della Camera. La situazione poi precipita nel 2011 il governo crolla a colpi di spread (con annessa frizione fortissima del Cavaliere con il suo ministro dell’Economia Tremonti) e a Palazzo Chigi arriva Mario Monti.

Quarto momento: il governo Conte del 2018. Si potrebbe sostenere che non c’entra con questa storia, ma non è vero, non fosse altro per il fatto che si tratta di un governo con la sinistra all’opposizione (esattamente come gli altri qui citati). Qui succede che Salvini abbandona i suoi alleati di campagna elettorale (cioè Meloni e Berlusconi) per costruire una maggioranza con il M5S. Ed eccoci ai giorni nostri: dopo 15 mesi Salvini cambia idea e esce dal governo. Certo, sono tutte storie diverse.

Ma hanno in comune l’evidente difficoltà dello schieramento di destra della politica italiana (spesso maggioritario tra gli elettori) quando è chiamato a fare i conti con la micidiale complessità insita nel governare. Insomma questa destra italiana (moderata o leghista, sovranista o post-fascista, liberale o populista) se la cava abbastanza bene quando deve fare campagna elettorale, assai meno quando entra nella stanza dei bottoni. È un ragionamento valido solo al passato? Neanche per sogno, basta leggere (neanche tanto tra le righe) la dichiarazione di Berlusconi di oggi.

Si tratta infatti di una spietata sconfessione della linea Salvini di opposizione all’Europa, premessa tutt’altro che favorevole a una gioiosa convivenza anche in caso di imminente campagna elettorale in comune. A destra insomma ci sono tanti voti, ma le condizioni per governare (quasi) serenamente vanno cercate con un binocolo, a patto che sia molto potente.

ROBERTO ARDITTI