Forse il caldo che non molla la presa ha influito sulle parole del governatore del Veneto Luca Zaia quando alla festa del Carroccio a Conselve, nel Padovano, probabilmente anche molto inebriato dalla presenza di Matteo Salvini, ha ordinato: "Da qui alle prossime elezioni voglio un popolo pancia a terra. Vi aspetto tutti in strada pronti a fare la rivoluzione".

Tralasciamo che l’espressione del "popolo pancia a terra" si presta a interpretazioni pecorecce e per nulla a favore del popolo. Tralasciamo. Però anche Zaia farebbe bene a informarsi su cosa è successo in Catalogna, proprio in quella Catalogna secondo molti nostri politici pronta a fare la rivoluzione, nel suo caso indipendentista che Bossi più di 20 anni prendeva a esempio da imitare – anche se non pancia a terra – gridando e minacciando "Faremo come la Catalogna!".

Proprio la Catalogna della quale lo stesso Salvini in alcune occasioni ha sbandierato una grande bandiera per dire a nuora perché suocera intenda. Il manipolo dei 12 amministratori e leader indipendentisti che nel 2017 avevano organizzato con clamore mondiale manifestazioni per la "rivoluzione indipendentista" di massa e il referendum per la secessione, giudicato illegale dalla corte costituzionale spagnola, sono tutti in galera o fuggiti all’estero, processati col rischio di condanne fino a 25 anni di detenzione – chieste lo scorso 12 giugno nel disinteresse generale – come nel caso di Oriol Junqueras, vicepresidente della Generalitat, nome del sistema amministrativo-istituzionale del governo catalano, più o meno simile a quello di una nostra Regione. Se la sua pena e le altre verranno confermate o no lo sapremo durante questo settembre o al più tardi a ottobre.

Nel frattempo per sfuggire ai mandati di cattura sono scappati all’estero l’ex presidente della Catalogna, Carles Puigdemont, giornalista passato alla politica famoso anche per la zazzera alla Beatles, e il suo ex ministro Toni Comin. Rifugiati in Belgio, alle ultime elezioni europee sono stati eletti europarlamentari, ma il 2 luglio non hanno potuto fare il loro ingresso nell’europarlamento perché per evitare di finire in manette anche loro non sono tornati a Madrid per ottemperare all’obbligo di giurare nel parlamento spagnolo prima di potersi insediarsi poi all’europarlamento. Da notare che Puigdemont il 25 marzo dell’anno scorso in ottemperanza al mandato di cattura spagnolo è stato arrestato in Germania: è uscito dal carcere di Neumünster il 6 aprile, ma solo dopo avere pagato una cauzione di 75 mila euro. Il 26 maggio è stato eletto eurodeputato anche Junqueras, ma il tribunale gli ha rifiutato il permesso straordinario per partecipare lunedì 17 giugno al Consiglio centrale elettorale dove giurare per la carica di europarlamentare, rimasta quindi appesa al chiodo. Secondo la corte che lo giudica, il trasloco a Bruxelles di Junqueras pregiudicherebbe il processo a suo carico.

Da notare che i reati contestati a Junqueras oltre alla sedizione addebitata a tutti comprendono anche l’uso improprio di fondi pubblici, cosa che ricorda la condanna per i 49 milioni di euro di contributi elettorali pubblici fatti sparire dalla Lega di Salvini. I vari Zaia e affini che minacciano "la rivoluzione" o la "rivolta" per impedire un eventuale nuovo governo solo perché loro hanno fretta di tornare in forte anticipo alle elezioni, farebbero bene a meditare sulla sorte dei rivoltosi catalani: applauditissimi finché erano in sella e molto di moda, abbandonati al loro destino quando hanno sbattuto la faccia contro la realtà. Ma il BelPaese non è la Spagna.

Chissà in quale repubblica delle banane il destino politico di oltre 60 milioni di persone dipende dal voto elettronico di qualche sparuta decina di migliaia di iscritti a una piattaforma elettronica, gestita per giunta in modo privato e non esente da sospetti. Facendo così rivoltare nella tomba Jean-Jacques Rousseau, filosofo, scrittore e musicista fatto diventare una specie di zimbello postmoderno col plagio del suo nome.

di PINO NICOTRI