Devo confessare che del taglio dei parlamentari mi disturbava parecchio il piglio antipolitico con cui era nata e l’idea originaria: che andasse ridotto il numero dei "parassiti" e risparmiato sui costi della politica. La politica costa e deve costare per consentire un esercizio democratico. Poiché ci siamo arrivati (e penso che politicamente non se ne potesse prescindere), spero ora che nel dibattito politico la modifica costituzionale non sia giocata in quel senso ma come riordino del quadro istituzionale per dare più efficienza e autorevolezza al Parlamento. È proprio così? Sì e no. La risposta non può essere unilaterale perché ha tante sfaccettature. Per cominciare, il riordino istituzionale deve ancora esservi e non può esaurirsi nel ridotto numero di parlamentari: legge elettorale, regolamenti parlamentari, la necessità di affiancare al Parlamento istituzioni di rappresentanza. Il rischio di creare un Parlamento di notabili e di super professionisti è reale. Altrettanto lo è, il rischio di una perdita di rappresentanza sociale. Fosse stato per me non l’avrei mai messo in un programma di governo questa modifica, né al presente né in un auspicabile futuro.

È, però, vero che non tutto è così lineare. Il fatto è che noi dobbiamo riferirci al Parlamento reale, non quello ideale. Se giudico dalla mia esperienza parlamentare (XIII Legislatura) almeno metà dei deputati erano pesci fuor d’acqua in Parlamento. Si tratta di persone che nel loro ambito avevano certamente fatto bene ma lì giravano a vuoto; sindaci di centri popolosi, funzionari di partito, dirigenti di particolari associazioni di categoria o professionali, volti noti di spettacolo, sport e tv e, in più, persone scelte un po’ casualmente per via dell’equilibrio di genere non certo sulla base di criteri di qualità professionali e competenza. Questi deputati non sono portatori di un punto di osservazione della società (sociale o territoriale) che debba molto alla loro presenza, né sono portatori di alcuna effettiva e reclamata rappresentanza. Esserci o non esserci non avrebbe cambiato nulla perché facevano numero e nient’alto. Doveva essere così, penso, anche nella 1° Repubblica, quando il Pci portava in Parlamento anche molti quadri per far avere loro una pensione o la Dc molti titolari di clientele locali, persone scelte dalle parrocchie e sherpa di partito.

Poi, con il Parlamento dei nominati, è stato ancora peggio. Invece di approfittare dell’occasione offerta per attrezzare una squadra di prim’ordine, i criteri che hanno imperversato sono stati la fedeltà, il clan, l’affetto familiare, la riconoscenza per qualcosa e il desiderio di costruirsi teste di ponte per acquistare forza politica. A sinistra, il peggiore non è stato neppure Renzi, ma Fassino, che ha aperto la consuetudine. Se il Parlamento si priva di costoro (brave persone, s’intende, ma non idonee al ruolo) non perde nulla. Certo, nessuno può assicurare che, con la riduzione del numero chi esca appartenga necessariamente questo gruppo, ma forse una migliore selezione diventa indispensabile. Basti pensare al Senato (tra parentesi, sempre di qualità media inferiore rispetto alla Camera) dove un gruppo che voglia contare (poniamo di 60 senatori!) avrà si e no 3 o 4 persone in ciascuna Commissione. Se non cambia criterio si suicida ciò che dall’esterno non si percepisce del Parlamento - immaginato come luogo politico per eccellenza - è che in realtà nel day by day esso è un luogo di scrutinio tecnico, o che, almeno, tende a sollecitare in questa direzione la funzione parlamentare.

La politica, quand’anche rimbalzi in qualche momento in Parlamento (come pure avviene), si svolge ed è determinata dall’esterno di esso, che ne è solo la cassa di risonanza. Il Parlamento non va oltre il ruolo di amplificatore. Anche l’essere parlamentare è vissuto (non a torto) come condizione importante di legittimazione da far valere essenzialmente fuori del Parlamento per aver voce nelle istanze di partito, nei media e nel territorio. Il Parlamento che ho frequentato non era in grado di produrre leggi se non come mera ratifica dell’iniziativa governativa. Fosse stato lasciato a sé stesso, e non guidato dal governo, avrebbe prodotto disastri, non avrebbe saputo organizzare la benché minima politica organica. E, anche nella ratifica, il suo intervento è stato quasi sempre di distorsione (lobbistica) della ratio delle leggi. Nonostante la manifesta inadeguatezza dell’Istituzione a essere centro di elaborazione normativa, i parlamentari vivono l’iniziativa governativa e il loro ruolo subalterno all’esecutivo non come ovvia necessità, ma con frustrazione e come espropriazione, e si arrabattano a presentare leggi su tutte le minutaglie, come se queste avessero mai una probabilità di venire discusse, a meno che il governo non se ne impadronisca ricomprendendole in qualche provvedimento organico (ma anche questo è vissuto come frustrazione ed espropriazione, non come soddisfazione).

Molto spesso essi sono, in questa funzione di proponenti, passacarte di qualche centro di interessi, locale o nazionale. Per i parlamentari della maggioranza il ruolo di spogliazione è vissuto ancora più drammaticamente, perché devono far quadrato. Non sono neppure i singoli l’anello debole, ma le logiche in cui sono inseriti. Oggi dobbiamo pensare a un Parlamento sempre più concentrato sulla definizione degli indirizzi su materie organiche e sulle linee fondamentali di intervento che il governo si propone di seguire, ma che lasci a quest’ultimo la libertà di riempire le caselle in cui quelle linee si sostanziano, e si riservi poi il controllo di come l’esecutivo abbia tradotto le indicazioni parlamentari in atti definitivi. Un controllo non formale, ma diretto anche a un compito di segnalazione di come le leggi hanno funzionato o sono passibili di funzionare, alle correzioni che ciò comporta e alla verifica sul campo, dando luogo, in tal modo a ulteriori atti di indirizzo, più che a effettive modifiche di legge. Una funzione, quindi, altamente politica, che il nostro Parlamento svolge malvolentieri, di cui si gioverebbe anche l’opposizione perché il confronto è sollecitato su visioni e assetti.

Basti pensare a quanto poco investimento (in primo luogo di tempo e missione) il Parlamento fa in analisi d’impatto e inchiesta sulle leggi che vara. Si tratta di attività che si collocano a monte e a valle rispetto a quella su cui si concentra e si organizza oggi il Parlamento nei suoi lavori (cioè, l’esame minuzioso degli atti normativi ai fini di emendamento e ratifica) e che chiamano in causa una modifica della sua funzione. Se rimane così, col processo rituale di formazione della normativa, con la dispersione delle materie trattate, sempre con le stesse procedure, con la settorializzazione delle competenze di giudizio che fa premio sulla valutazione organica, il Parlamento finisce per essere strumento di frammentazione dei principi ordinativi. Da un altro punto di vista, finisce per essere un Parlamento permeabile suo malgrado alle lobby piuttosto che predisposto funzionalmente e autorevolmente al rapporto strategico e sistematico con gli interessi organizzati. Tutto ciò che c’entra con la riduzione dei parlamentari?

Un po’ c’entra perché della farraginosità dei processi parlamentari e della loro qualità è anche responsabile l’elevato numero di persone che hanno potenzialmente voce in capitolo. In fin dei conti, il momento istituzionale più fecondo che ricordo della mia esperienza parlamentare è quello di una Commissione speciale bicamerale di 30 (trenta) deputati e senatori (la Commissione dei Trenta, che, fra l’altro, presiedevo) creata come referente parlamentare appositamente dedicato a una legge organica (la riforma del fisco); Commissione, che rappresentava l’intero Parlamento e aveva il compito e le prerogative speciali per portarla a definizione finale lavorando in partnership con il governo, ma anche verificarla congiuntamente al mondo degli interessi, istituzionalizzando il dialogo e l’inchiesta. Questo non solo durante il varo ma anche dopo il varo delle leggi per una migliore valutazione degli aspetti problematici o dall’impatto effettivamente avuto. Mai più ritentato un esperimento del genere.

Ecco perché non faccio un dramma della riduzione dei parlamentari, pur non piacendomi. Si potrebbe persino approfittare di questo se il denaro risparmiato fosse indirizzato a dotare ogni singolo parlamentare di staff di prim’ordine (di cui una commissione esterna ne vagli l’adeguatezza in entrata) e di ogni strumento possibile (anche di raccolta testimoniale): tutto ciò che ne faccia comunque un miglior deputato. Si potrebbero potenziare l’ufficio studi delle due Camere o agenzie di valutazione dell’impatto delle leggi, come talvolta è stato l’Isae prima che venisse sciolto da Tremonti in una spending review dell’epoca. Quindi, pur storcendo il naso, non mi impiccherei al numero di 630 e 315. Certo, il problema della rappresentanza sociale è molto serio e bisogna pensare almeno a un Cnel reso (da prerogative sostanziali e pesanti verso il Parlamento) un’effettiva e non pletorica e inutile (come è oggi) stanza di compensazione di sindacati, associazioni datoriali, terzo settore e professioni (non mi dilungo su questo ma vorrò tornarci). La qualità della democrazia non si giudica dal numero di parlamentari ma dall’effettiva rappresentanza sociale, dalle istituzioni intermedie che convogliano le istanze della società, da come si organizza e sottopone a monitoraggio la funzione tecnica, dalla qualità e selezione della classe dirigente e molto altro. Non ultimo, da come si ridisegna l’intero tessuto istituzionale, che è il vero nodo su cui riflettere.

SALVATORE BIASCO