Mario Draghi ha presieduto il suo ultimo consiglio direttivo della Bce dopo otto anni di mandato nei quali l’Europa è passata attraverso la più grave crisi economica dalla fondazione della Comunità e dell’Unione. Una crisi che, se avesse portato allo scardinamento dell’euro, avrebbe anche determinato quella del mercato unico e quindi il precipitare verso forme di disunione politico-istituzionale europea.

Nella conferenza stampa dopo il consiglio Bce, Draghi ha confermato che le decisioni di politica monetaria di settembre erano necessarie, anche perché i rischi di recessione per l’Eurozona, ma anche globali, sono consistenti, che gli Stati dell’Unione monetaria con disponibilità di bilancio devono fare politiche espansive e quelli con finanze pubbliche deboli devono essere prudenti. Ha aggiunto infine alcun considerazioni di metodo e di merito che hanno caratterizzato tutto il suo mandato.

Di questo voglio trattare. Draghi ha segnato un periodo della storia della costruzione europea, anche se la sua opera andrà commentata con calma. Si potrà allora confermare analiticamente che il suo lavoro, sia in termini di metodo e di merito, sia per il movente storico-politico, è stato cruciale per salvare l’area euro (e l’Ue) dalla disgregazione. Le critiche a Draghi, che si sono recentemente accentuate da parte di membri del Consiglio Direttivo della Bce, sono sbagliate perché considerano la moneta e la banca centrale come un’entità chiusa in dogmi meccanicisti quali che siano le situazioni e le conseguenze economiche e istituzionali. Un errore, questo, che sarebbe stato gravissimo soprattutto per una Banca centrale nascente come la Bce che, a confronto della Banca Centrale Usa (la Fed) appariva all’inizio una microentità posta a governare la moneta di una macroentità economica come l’Eurozona e l’Unione Europea. Un’operazione impossibile.

Adesso la Bce è adatta per una grande economia. Draghi è stato però sempre rigorosamente rispettoso dello Statuto della Bce e dei Trattati Europei, come ha stabilito la Corte di Giustizia europea. Nello stesso tempo, Draghi ha portato la Bce a un livello non dissimile alla Fed cioè a essere una banca centrale adatta a grandi aggregati economico-finanziari. Quindi la nuova politica della Bce è sempre stata calibrata sull’obiettivo di riportare l’inflazione verso il 2% annui, mentre le innovazioni si sono avute sugli strumenti utilizzati e sulle loro conseguenze.

Due sono state le grandi strumentazioni usate. La concessione di ampia liquidità, a condizioni di vantaggio, ai sistemi bancari dell’Eurozona, ma anche gli incentivi ad aumentare la loro erogazione di credito ai sistemi economici. L’acquisto diretto, tramite le banche centrali nazionali, dei titoli di Stato dei Paesi membri dell’Unione monetaria. Semplificando, si potrebbe dire che le prime strumentazioni erano rivolte al sistema privato e le seconde al sistema pubblico, anche se poi nei fatti si sono avute molte combinazioni. A questi interventi sono seguite conseguenze dirette e indirette.

Quelle dirette hanno portato a immettere nel bilancio della Bce una grande quantità di titoli, ad abbassare i tassi di interesse fino allo zero, a ridurre il costo di finanziamento dei debiti pubblici per vari Paesi pure allo zero o in negativo su tutta la durata temporale delle emissioni (come per la Germania e per molti altri) e ad abbassare ai minimi storici i tassi dei titoli di Stato (per tutti e per l’Italia). Quelle indirette hanno favorito enormemente la ripresa in media della economia dell’Eurozona e dell’Ue e il calo della disoccupazione. Molti sono i distinguo possibili, ma credo nessuno possa affermare che senza queste misure l’euro avrebbe resistito alla crisi.

Detto in altri termini, nessuno ha credibilmente fornito ricette alternative che avrebbero portato allo stesso risultato. Anche perché un conto è scrivere saggi, un altro è decidere su scelte così difficili, mentre la politica economica europea era debole e ondivaga.

ALBERTO QUADRIO CURZIO