"Questo non rivoluzionerà le relazioni tra Stati Uniti e Cina né le condizioni commerciali tra di loro, ma mostra che i due Paesi possono lavorare insieme su un problema importante", ha detto a Bloomberg Clete Willems di Akin Gump, parlando della "fase uno dell’accordo", annunciata dal presidente Donald Trump l’11 ottobre. "Imparare a farlo è fondamentale per evitare un ampio deterioramento di tutti gli aspetti delle nostre relazioni, che non è nell’interesse a lungo termine di nessuno". Nonostante quanto affermato da Willems, ora è nell’interesse a lungo termine degli Stati Uniti rinunciare agli accordi commerciali con la Repubblica popolare cinese.

Perché? Per quattro motivi. Innanzitutto, la Cina comunista non ha mai accettato l’idea del vantaggio comparato, che è alla base del sistema commerciale globale. Sì, i cinesi mercantilisti credono che dovremmo acquistare i loro prodotti, ma loro – i maestri delle barriere non tariffarie e di altre forme di predazione – hanno lavorato sodo per mantenere le merci straniere fuori dal mercato. Come può l’America intrattenere scambi commerciali con un Paese che non crede ai benefici del commercio? In secondo luogo, la Cina comunista non ha mai onorato un accordo commerciale con gli Stati Uniti. Pechino, nel corso di decenni, ha sistematicamente violato sia i suoi obblighi derivanti dalla sua adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) sia quelli nei confronti dell’America, come previsto da vari accordi bilaterali. In terzo luogo, il sistema economico della Cina è incompatibile con quello americano. Xi Jinping, il presidente cinese, negli ultimi anni ha riportato forzatamente indietro il Paese, un processo ribattezzato come "grande regressione". Con spietata determinazione, Xi ha chiuso le porte del mercato cinese agli stranieri, applicando, tra le altre cose, regole altamente discriminatorie ed emanando leggi e normative pregiudizievoli. Allo stesso tempo, ha ricombinato le grandi imprese statali in monopoli di Stato; ha ribaltato la privatizzazione parziale degli anni precedenti rafforzando la partecipazione statale nelle imprese; ha fatto assumere allo Stato il controllo delle aziende private; ha erogato più aiuti statali a favore delle imprese a controllo statale e ha perseguito lo sviluppo attraverso dubbie politiche industriali, come la sua famigerata iniziativa "Made in China 2015" per dominare 11 settori tecnologici cruciali. Come si dice ora in Cina, il settore statale "avanza" rapidamente e il settore privato e quello estero "retrocedono". E questo perché Xi sta cercando di riportare la Cina a una forma moderna di maoismo. In quarto luogo, è particolarmente difficile intrattenere scambi commerciali con un ladro, soprattutto quando il ladro considera le relazioni commerciali come un’opportunità per rubare di più. La Cina di Xi ha continuato a violare la proprietà intellettuale degli Stati Uniti per centinaia di miliardi di dollari all’anno. Questo reato è essenziale per la realizzazione dell’iniziativa straordinariamente ambiziosa "Made in China 2025". Ma non solo: i piani futuri di Xi sono particolarmente dannosi. Ad esempio, egli sta per applicare la legge del 2016 sulla sicurezza informatica per vietare l’uso delle reti private virtuali e la crittografia in modo da poter raccogliere tutti i dati e le comunicazioni delle aziende straniere che operano in Cina. I funzionari cinesi consegneranno sicuramente alle aziende cinesi le informazioni acquisite in modo che possano sapere tutto dei concorrenti stranieri. La Cina ha già utilizzato i dati rubati e la tecnologia per paralizzare le aziende straniere e mandarne in fallimento alcune, come la Nortel Networks. Inoltre, Xi Jinping sembra essere ancora più audace nell’esigere dalle aziende statunitensi operanti in Cina di giurare obbedienza a Pechino, di difendere le posizioni del Partito Comunista e di attuare le sue politiche ovunque esercitino le loro attività. Dopotutto, ciò è evidente dal comportamento riprovevole della National Basketball Association, di Apple e di Espn, che di recente hanno ceduto alle intimidazioni cinesi. Per quanto il comportamento di queste aziende americane possa sembrare biasimevole – nessuna di loro ha agito con fermezza per difendere i valori americani – non ci si poteva aspettare che opponessero resistenza a un assalto da parte di un potente Stato comunista. Pertanto, gli americani dovranno fare una scelta: prendere il denaro cinese o mantenere un libero mercato delle idee. Il disimpegno delle due economie è, ovviamente, deplorevole, ma è necessario poiché la Cina incalza gli americani e non lascia loro alcuna scelta se devono difendere le libertà e la sovranità. Tutto ciò ci riporta alle trattative commerciali in corso. Quando è emerso che sarebbe stato raggiunto un accordo commerciale di qualche tipo, i grandi distributori hanno iniziato a effettuare ordini consistenti per la prossima stagione ai produttori cinesi. Se fosse stato chiaro che non ci sarebbe stato alcun accordo, gran parte degli ordinativi sarebbero stati effettuati altrove. L’11 ottobre, Pechino ha tratto un altro grande profitto. Trump ha accettato di prorogare un aumento dei dazi previsto per il martedì successivo. Avendo ottenuto ciò che voleva, la Cina ha quindi iniziato a giocare duro. Il 17 ottobre, Pechino ha negato di essersi impegnata ad acquistare prodotti agricoli americani per 40-50 miliardi di dollari. Il presidente Trump, nel suo incontro avvenuto nello Studio Ovale della Casa Bianca con Liu He, il capo negoziatore per le trattative commerciali, ha affermato che Pechino aveva fatto una promessa come parte dell’accordo commerciale con gli Stati Uniti. Se Pechino non fosse stato d’accordo a fare ulteriori acquisti di prodotti agricoli, il momento giusto per parlarne sarebbe stato quando Liu avrebbe avuto il faccia a faccia con Trump. Con il suo silenzio, Liu ha consentito a Trump di pensare di avere raggiunto un accordo quando, in realtà, non era così. Pertanto, Trump ha fatto una reale concessione – la proroga dei dazi – per una promessa che non era un promessa. Un’altra promessa commerciale non mantenuta è un’ulteriore ragione per cui gli americani concordano con Arthur Waldron della University of Pennsylvania, il quale sostiene che "l’impegno" della Cina è "il più grande fallimento della politica estera" di Washington. I decisori politici statunitensi avevano pronosticato che il comportamento commerciale di Pechino – e di altri – sarebbe migliorato nel corso del tempo, ma è successo il contrario. L’impegno, non imponendo dei costi a Pechino per le sue mosse predatorie e per altri motivi, ha contribuito all’evidente deterioramento del comportamento cinese. Trump ha iniziato a liberarsi di questo approccio fallito, che ha dominato la politica americana da quando Nixon si è recato nella capitale cinese nel 1972 per incontrare Mao. A posteriori, andare a Pechino è stata la mossa sbagliata. E si sbaglia anche Clete Willems. Alla luce della recente rottura di un ulteriore accordo commerciale da parte di Pechino, è evidente che il regime comunista cinese non è in grado di lavorare con gli Stati Uniti – o con qualsiasi altro Paese. Pertanto, non intratteniamo relazioni commerciali con una Cina che mente, imbroglia e ruba