Ci è andata molto meglio del previsto. Non è una provocazione e nemmeno un paradosso: all’Italia sui dazi imposti da Donald Trump all’industria alimentare è andata - tutto sommato - bene. Dalla lenzuolata del presidente americano sono stati risparmiati prodotti chiave come olio, pasta, vino e prosciutti crudi, che si temevano nel mirino, ed è stata praticata una percentuale di maggiorazione del 25%, decisamente inferiore a quella temuta che, in alcuni casi, si ipotizzava potesse arrivare al 100%. Certo, alcune importanti categorie alimentari sono state toccate, vuoi per ritorsione dopo le partnership del nostro governo con la Cina, come nel caso degli agrumi, vuoi per cercare di favorire l’incidenza sul mercato di alcune presunte eccellenze Made in Usa, come i formaggi del Wisconsin, che vorrebbero nelle intenzioni tenere testa ai nostri e a quelli francesi.

Ma, conti alla mano, non c’è dubbio: l’impatto complessivo dei dazi sull’Italia è stato di gran lunga inferiore a quello incassato da altri Paesi europei, in molti casi nostri competitor nel mercato, come Francia, Germania, Spagna e Regno Unito, che a differenza del nostro Paese sono tutti membri del consorzio Airbus, dalle cui vicende è scaturita la reazione dello Zio Sam. Volendo essere pragmatici, anziché indulgere nel lamento, questo scarto nella penalizzazione delle diverse economie rappresenta di fatto un’opportunità per l’Italia: ci sono settori, come quello del vino, per i quali una maggiorazione più pesante dei prezzi a carico della Francia, nostro principale antagonista, potrà trasformarsi per noi nella chance di guadagnare consistenti fette di mercato.

Non è il caso di festeggiare, certo. Focalizzare questi elementi positivi non significa salutare l’introduzione dei dazi americani come una buona notizia, ma inquadrare la novità nel giusto contesto, senza lasciarsi andare al disfattismo. L’attivazione delle maggiorazioni, d’altra parte, è stata un fulmine a ciel sereno solo per chi nel 2019 ha fatto orecchie da mercante a un’eventualità più volte annunciata: da mesi si attendeva l’introduzione effettiva dei nuovi dazi americani e se qualcosa è stato fatto per addolcirli, ciò è avvenuto solo nei giorni che l’hanno immediatamente preceduta, quando il segretario di stato americano, Mike Pompeo, è stato in visita a Roma.

La botta subita, almeno, ha reso più chiara la road map delle azioni di politica internazionale da intraprendere e sulle quali insistere per dare respiro all’industria alimentare: andranno incoraggiati gli accordi bilaterali con le grandi economie emergenti, come il Ceta con il Canada e il patto commerciale tra Ue e Mercosur in Sudamerica, e riequilibrati i rapporti alterati da irrigidimenti diplomatici, come quelli con la Russia, condizionati dalle sanzioni stabilite cinque anni fa. Se tutto questo verrà fatto, sarà certamente possibile all’industria alimentare raggiungere l’obiettivo dei 50 miliardi di export entro il 2021, con o senza i dazi Usa.

Al di là di tutto, comunque, l’America rimane un mercato strategico per l’Italia, il primo tra i Paesi extraeuropei e il secondo dopo la Germania a livello mondo. È un mercato storicamente basato non sul prezzo, ma sulla qualità dei prodotti. In America il nostro parmigiano, per fare un esempio emblematico, aveva già un costo almeno dieci volte più alto rispetto al modestissimo "parmesan" prodotto nel Wisconsin: non sarà certo un rincaro di qualche dollaro a far sì che coloro che fino a ieri hanno scelto un prodotto di tale eccellenza optino improvvisamente per un autarchico formaggio low cost.

IVANO VACONDIO

PRESIDENTE DI FEDERALIMENTARE