La Bolivia spaccata a metà si riversa ancora per le strade e mette a soqquadro le città con assalti, spari, aggressioni. Evo Morales lascia il Paese e si rifugia in Messico che gli concede asilo: "Sorelle e fratelli, parto per il Messico. Mi ferisce lasciare il Paese per ragioni politiche, ma sarò sempre vigile Presto tornerò con più forza ed energia", scrive su Twitter. Il presidente dimissionario è arrivato in Messico intorno alle 18 italiane di martedì. Non è solo la fine di un ciclo politico, di un esperimento riuscito ma poi naufragato per gli errori di un leader indigeno incapace di vedere la realtà, prigioniero del suo mito, e per gli interessi di una destra che ha soffiato sul malcontento e sui disagi. L'Esercito prende il potere.

Davanti alla incapacità (volute) della polizia di gestire il caos che si è creato con le dimissioni di Morales, il generale William Kaliman ha dato ordine ai soldati di lasciare le caserme e di intervenire "per evitare sangue e lutti". È il golpe. Come denunciava da tempo il leader dei cocaleros, come hanno cercato fino alla fine che gli si opponeva. Intanto si è dimesso il ministro della Difesa della Bolivia, Javier Zavaleta: "Rinuncio all'incarico di ministro della Difesa chiarendo alla Bolivia e al mondo - ha dichiarato in un video - che la nostra volontà, quella del comandante generale delle forze armate e di questo ministro è sempre stata quella di preservare il ruolo istituzionale delle forze armate al servizio della popolazione".

La Paz e El Alto, le due roccaforti dell'opposizione e dei militanti del Mas, fedeli al presidente in fuga, sono chiuse nel panico. La gente resta tappata in casa e segue in tv le battaglie furibonde che si svolgono all'esterno, via per via, casa per casa. "I soldati", ha aggiunto Kaliman apparendo in televisione, "useranno la forza in maniera proporzionale con gli atti di gruppi vandalici che causano terrore nella popolazione". "Il leone si è svegliato", annunciano sulle reti sociali i simpatizzanti del partito che per 14 anni è rimasto al potere. È la rivolta della base di Morales, quella che lo ha sostenuto per tanto tempo e che adesso, con la fine di tutto, tira fuori le armi e si scaglia contro quelli che considera i responsabili dello sfacelo. Agiscono con rabbia e con furia incontenibile: assaltano le stazioni e le caserme della polizia.

Al grido "Adesso sì, guerra civile", migliaia di giovani escono dalle case e della sedi del partito assediano e bruciano i simboli del nemico e inseguono i poliziotti che fuggono. Sono decisi, vogliono andare tutti a La Paz per chiudere i conti e assaltare il palazzo del governo. La minaccia è bastata a far chiudere tutti i negozi, le banche, i mercati della capitale mentre gli abitanti alzano barricate e pattugliano gli incroci per evitare i saccheggi. I parlamentari che avrebbero dovuto riunirsi nell'Assemblea per eleggere stamane un nuovo presidente a interim hanno interrotto i lavori e sono fuggiti. Morales grida al golpe: "Lo avevo detto, ecco dimostrato". E poi su Twitter aggiunge: "Per un presidente che rappresenta la gente umile, la polizia si ribella e picchia mentre le Forze Armate chiedono la sua rinuncia; per la classe neoliberale che ostenta potere economico, Polizia e Forze Armate reprimono il popolo che difende la democrazia con giustizia, pace, uguaglianza".

La sommossa dei fedelissimi si è concentrata anche a La Paz. Migliaia di contadini sono arrivati con colonne di camion e auto e hanno circondato i quartieri ricchi della capitale. Innalzavano bastoni, pali, vanghe e hanno attivato piccole cariche di dinamite scatenando il terrore tra gli abitanti tappati in casa che chiedevano inutilmente l'intervento della polizia. In uno dei quartieri più colpiti vive lo stesso leader dell'opposizione Carlos Mesa che in preda al panico ha invocato l'aiuto degli agenti temendo che la sua casa venisse attaccata. La crisi ha esasperato le divisioni sociali, razziali, etniche tra bianchi e meticci, tra ricchi e poveri, tra classe alta e media e classe contadina da sempre presenti in Bolivia e che Morales era riuscito a plasmare fino a neutralizzarle. Una divisione che la rete amplificava con insulti e messaggi di odio. Chi veniva attaccato, nei quartieri assediati dai simpatizzanti del Mas, si scagliava su quelli per strada con toni razzisti e xenofobi. Partivano appelli a organizzarsi, a reagire, a creare "catene di preghiere".

Fuori le minacce e gli insulti erano altrettanto pesanti. Contro Mesa e Camacho, i due leader dell'opposizione che ha dato inizio alla rivolta. Per tutto lunedì, mentre Morales preparava il suo esilio in Messico, è stato un crescendo di azioni esaltate. I vincitori gridavano e facevano di tutto; c'era chi voleva arrestare il presidente dimissionario, chi i membri del Tribunale Superiore Elettorale responsabili della frode di due domeniche fa. Chi, come molti poliziotti, si è strappato dalla divisa la whipala, la bandiera indigena che in base alla Costituzione è uno dei simboli nazionali e che i fatti hanno associato alla fine con il Mas. Gesti gravi, di rifiuto esasperato che nel delirio di violenza hanno gettato ancora più benzina nell'incendio boliviano. Il "leone" che dormiva si è svegliato. L'Esercito ha deciso di intervenire.

Daniele Mastrogiacomo