Trent’anni senza Leonardo Sciascia, lo scrittore dell’impegno civile e politico, l’uomo contro che ha raccontato il suo presente fatto di misfatti e orrori. Così nel trentennale della scomparsa dello scrittore siciliano, il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando ha disposto l'intitolazione della biblioteca comunale di piazzetta Lucrezia Brunaccini allo scrittore siciliano. "È La conferma della straordinaria importanza di Sciascia nella storia culturale della Sicilia e nella letteratura europea", afferma il sindaco in condivisione di impegno con l'assessore alle culture, Adham Darawsha, e con il presidente del consiglio comunale, Salvatore Orlando. La cerimonia di intitolazione è prevista per mercoledì 20 novembre, data della ricorrenza. Seppur discosto e lontano dai riflettori dei media, abitando a Racalmuto, in provincia di Agrigento, dove era nato nel 1921, Sciascia è stato anche un uomo radicato nel suo tempo, capace di attivare la discussione politica italiana sia con l’attivismo sia con i suoi scritti in cui racconta la complessa situazione di fine novecento, la Sicilia e il dramma della mafia. Romanzi come "Il giorno della civetta" e "A ciascuno il suo" sono il cuore del suo modo di agire con la parola, sono il segno di un coraggio che passa per la letteratura, come testimoniato dai giudizi di Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino.

Sono molte le pubblicazioni che si sono succedute nel corso dell’ultimo anno per riprendere il suo pensiero: dalla raccolta in volume, per i tipi di Adelphi e con l’ottima curatela del solito Paolo Squillacioti, degli scritti che Sciascia dedicò al genere amatissimo del giallo ("Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo", Adelphi, 2018), al nuovo regesto di memorie di Antonio Motta, sulle orme dei libri dello scrittore di Racalmuto ("Leonardo Sciascia. La memoria, la nostalgia e il mistero", Progedit, 2018); dal ponderoso numero monografico Leonardo Sciascia trent’anni dopo dedicato dalla rivista semestrale "Il Giannone", diretta dallo stesso Motta (anni XV-XVII, numero 29-34, gennaio-dicembre 2019) all’edizione di due interessanti epistolari utili a mettere a fuoco una questione spesso trascurata: le lettere degli anni giovanili (1940- 1957) rivolte al sodale Stefano Vilardo ("Nessuno è felice: tranne i prosperosi imbecilli", De Piante, 2018) e il carteggio che testimonia il duraturo rapporto tra Sciascia e Consolo ("Essere o no scrittore. Lettere 1963-1988", pp. 96, € 14, Archinto, 2019) e, soprattutto, il debito contratto da quest’ultimo nei confronti dell’autore delle "Parrocchie di Regalpetra" (Laterza, 1956) e del "Consiglio d’Egitto" (Einaudi, 1963).

Ne risulta uno scrittore che sapeva fare squadra, dialogare con i suoi colleghi, arrivare a dare l’input per la nascita di casa editrice come quella inventata da Elvira Sellerio. Non si possono certo dimenticare gli intensi scambi culturali che ebbe con Bruno Caruso, alla rottura, per le note divergenze politiche, con Renato Guttuso; con il visionario Fabrizio Clerici da cui scaturì "Todo modo" (Einaudi, 1974). Quello stesso Clerici che, qualche anno dopo, avrebbe realizzato l’acquaforte, emblematicamente intitolata "L’uomo solo", per la copertina del libro dell’amara svolta, "L’affaire Moro" (Sellerio, 1978), sul sequestro, il processo e l'omicidio nella cosiddetta "prigione del popolo" di Aldo Moro organizzato dalle Brigate Rosse. Nel giugno del 1979 accetta la proposta dei Radicali e si candida sia al Parlamento europeo sia alla Camera. Eletto in entrambe le sedi istituzionali resta a Strasburgo solo due mesi e poi opta per Montecitorio, dove rimarrà deputato fino al 1983 occupandosi dei lavori della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro (con una forte critica rivolta alla cosiddetta "linea della fermezza", difatti Sciascia si era prodigato perché si trattasse con le Brigate Rosse per liberare Moro) e sul terrorismo in Italia.

Da una parte si trova in lui il rifiuto della violenza, dall'altra una costante critica del potere costituito e dei suoi segreti inconfessabili. Si espresse anche contro la legislazione d'emergenza, che istituiva poteri speciali e inaspriva molte fattispecie di reato; egli era inoltre contrario al "pentitismo" (sia per il terrorismo sia per la mafia), in quanto premiava troppo un colpevole in cambio di rivelazioni che potevano essere fallaci, anche a danno di innocenti. Fu inoltre uno dei primi a ravvisare lati oscuri nel rapporto tra il terrorismo e lo Stato. A Sciascia venne attribuito lo slogan "né con lo Stato né con le Brigate Rosse", per indicare la volontà di molti intellettuali di criticare duramente lo Stato senza per questo aderire al terrorismo rosso; in realtà egli non pronunciò mai questa frase. Viene da chiedersi oggi, in epoche di mancanza di ideologie, cosa resta della eredità sciasciana, delle sue opere, del piano formale e linguistico, della poliedrica attività di scrittore, saggista, pamphlettista, giornalista, editore, appassionato d’arte e di acqueforti. Il critico Giulio Ferroni punta sulla sua necessità di ricerca della verità, una sete insaziabile alla base della sua vocazione letteraria. Per l’altro importante critico Massimo Onofri, le ferite di un privato poi violentemente rimosse, sarebbe alla base del suo futuro razionalistico: su tutte il suicidio del fratello Giuseppe e la conseguente instabilità del padre. A suggerirlo è anche la lettura del "piccolo epistolario" (appena sei lettere) che Sciascia inviò tra il 1940 e il 1957 al quasi coetaneo Stefano Vilardo, il compagno, l’amico di una vita, bonariamente invidiato, per il suo essergli vicino, da un poco più che esordiente Vincenzo Consolo (lettera del 16 agosto 1964). Quel Consolo che proprio nelle lettere di devota ammirazione rivolte al maestro trasfonde tutta la sua voglia di emanciparsi dalle angustie del "natìo borgo scipito" (lettera del 15 aprile 1967).

Resta il tema di una attualizzazione necessaria di Sciascia, soprattutto nel mondo della scuola, sottraendolo all’unico modo in cui viene letto, in maniera assai selettiva, dentro una prospettiva regionalistica, esclusivamente come "mafiologo". All'ansia di conoscere le contraddizioni della sua terra e dell'umanità, unì infatti un senso di giustizia pessimistico e sempre deluso, ma che non rinuncia mai all'uso della ragione umana di matrice illuminista, per attuare questo suo progetto. Ad esempio a lui si deve quel modo di scrivere oggi tanto di moda, quella del saggista nel racconto e narratore nel saggio in un forte nesso tra invenzione e realtà, finzione e verità. In occasione del trentennale della scomparsa, lo scrittore Vito Catalano, nipote di Leonardo Sciascia e figlio di Annamaria, ha tracciato un ricco profilo biografico e culturale dell’autore siciliano. "Ho avuto la fortuna di vivere accanto a lui anche se avevo appena 10 anni e mezzo quando ci lasciò" ha detto Vito Catalano ricordando il nonno come scrittore e come uomo, componenti indivisibili. Un uomo che aveva la libertà nella testa ma anche di una semplicità estrema, che conversava con tutti con rispetto. "La mattina - racconta Catalano - si alzava, studiava, poi pranzava e nel pomeriggio usciva creando in ogni posto un suo angolo da Racalmuto, paese natìo, al capoluogo della Sicilia" . Era un uomo legato al prodotto libro, che leggeva fin da piccolo a casa sua dove si trovava una piccola biblioteca. Per Sciascia il libro significava memoria e quindi pensava che i suoi libri non dovessero durare poco. Per lui anche quando i libri non hanno valore, non si devono ignorare perché dietro c’è l’uomo che si è impegnato per scrivere.

Marco Ferrari