Nel giro di 10 anni l’Italia è scivolata all’ultimo posto in Europa per numero di laureati: 28esima su 28 Paesi membri. La slavina è il fatale risultato di un progressivo impoverimento del sistema universitario del Belpaese, attraverso tagli regressivi (ha pagato di più chi aveva meno), che hanno provocato sempre più ampie diseguaglianze sociali, dividendo e allontanando i ricchi dai poveri, le Regioni del Nord da quelle del Sud, i (sempre meno, per la verità) garantiti dai precari. Una vera e propria macchina infernale, che riproduce e amplifica i ritardi italiani, invece di correggerli: è l’Università contro i poveri. Su questo quadro dall’estate scorsa ha acceso i riflettori un’indagine conoscitiva della Commissione Cultura del Senato, voluta non senza difficoltà, visto che all’epoca sedeva nei banchi dell’opposizione, dal senatore Francesco Verducci (Pd). I parlamentari hanno audito associazioni studentesche, sindacati, rappresentanti della docenza, che hanno fornito una dettagliata ricostruzione del sostanziale smantellamento del sistema accademico, a partire dal meccanismo di selezione dei docenti, basato ormai sull’utilizzo di ampie fasce di precariato (povero). Il finanziamento resta ancora per un miliardo (in termini nominali, senza contare l’inflazione) sotto al livello di 10 anni fa. Ma il giro di vite economico non è stato distribuito equamente: le aree più ricche del Paese hanno tenuto. Impoverendosi, il sistema ha innescato una cannibalizzazione interna, dove i più forti hanno schiacciato i deboli. Si è stabilito che gli atenei più virtuosi sarebbero stati premiati. E "virtuoso" significa ad esempio una quota maggiore di laureati occupati subito dopo aver finito gli studi, o maggiori rapporti con le realtà produttive. Tutti obiettivi più raggiungibili a Nord che a Sud. La forbice dell’austerità è diventata una lama affilata come l’ingiustizia. A poco a poco nel Mezzogiorno, dopo gli emigranti verso Nord in cerca di lavoro, e quelli in cerca di cure mediche, sono comparsi anche quelli in cerca di un’Università più "virtuosa". Uno studente su 4 oggi si trasferisce in un ateneo del Nord. E i fondi pubblici seguono lo stesso percorso. Il 50% delle risorse per le borse di studio è allocato a Nord (eppure in media i ragazzi più bisognosi sarebbero a sud). Secondo dati riferiti dai sindacati, durante la crisi il 30% delle risorse si è spostato da Sud a Nord. Un recente finanziamento varato un paio d’anni fa (280 milioni per 5 anni), destinato naturalmente alle eccellenze, è andato a finire per il 50% in tre Regioni: Emilia Romagna, Lombardia e Veneto. Sì, quelle dell’autonomia differenziata, che, visti i risultati, sembra già in vigore. A soffrire la crisi sono tutti i comparti, con una riduzione complessiva di 30 mila posti di lavoro in 10 anni: tremila l’anno. Una decimazione silenziosa, che ha aperto la strada a una multiforme geografia di lavoratori "irregolari". Sono quasi 30 mila i docenti a contratto che guadagnano circa 10 euro lordi all’ora. Circa 13 mila sono gli assegnisti di ricerca, senza alcuna certezza sul futuro. Lavorano accanto ai vecchi e paludati cattedratici, ma senza un contratto stabile né uno stipendio dignitoso. Tant’è che si moltiplicano le proteste dei ricercatori precari, dei docenti a contratto, di quelli a tempo determinato (il 16 la mobilitazione nazionale unitaria dei confederali). Come intervenire? Non basta solo rifinanziare: serve ridisegnare il sistema di selezione. Circolano diverse proposte, che restano per lo più sulla carta. In Senato ce n’è anche una dello stesso Verducci, che abbatterebbe il precariato con un canale di ingresso per i ricercatori di tipo europeo (la cosiddetta tenure-track, con un’assunzione a tempo determinato e poi la possibilità di accedere alla cattedra come associato). Il sistema gode dell’appoggio delle associazioni e i lavoratori, ma il testo resta bloccato. L’Università affonda e il Paese pensa ad altro. Gli amministrativi degli atenei hanno un trattamento economico più basso di altri dipendenti pubblici statali e aspettano da 10 anni un rinnovo contrattuale. Hanno pagato con un taglio di 20 mila posti di lavoro la crisi scoppiata nel 2008, mentre scomparivano 12 mila posti di docenza. Se poi si passa agli studenti, il panorama fa tremare i polsi. Rispetto ai colleghi stranieri i giovani italiani non hanno nulla: nei fatti sono fuori dall’Europa. Le borse di studio per i meritevoli con redditi bassi sono troppo poche per riuscire a coprire tutti coloro che avrebbero titolo a riceverle. Così un diritto costituzionalmente garantito, viene bellamente ignorato in nome dell’austerità di bilancio. Le regole italiane sono già ampiamente al di sotto degli standard europei (solo il 10% degli studenti sulla carta avrebbe diritto al sussidio, contro una media del 50% in Germania e nei Paesi scandinavi), ma se si passa dalle regole ai fatti reali, si sprofonda ancora di più: circa 8 mila studenti poveri devono cavarsela da soli per mancanza di cassa. Con un effetto che sembra una beffa. Le borse di studio, infatti, sono cofinanziate attraverso le tasse universitarie. Così, gli idonei non beneficiari ci perdono due volte: pagano per gli altri e non ricevono gli aiuti a cui avrebbero diritto. Se si fa un confronto internazionale si apre una distanza incolmabile. In Germania e nei Paesi scandinavi gran parte dei corsi sono tax free, da noi si spendono migliaia di euro l’anno. Senza contare che le famiglie devono pensare a tutto: le mense sono insufficienti, così come gli alloggi nelle case per lo studente, assediate da un magmatico mercato di affitti in nero. Non c’è da stupirsi che l’Italia da tempo abbia tassi di abbandono universitario tra i più alti nel mondo. Quello che sorprende è, piuttosto, che dopo tutte queste analisi, queste proteste, questi richiami, dopo i ripetuti appelli ai diritti costituzionalmente garantiti, il sistema resti sempre lo stesso: feroce e ingiusto. Ora si attende la fine dell’indagine in Senato. E poi?

Bianca Di Giovanni