La scorsa settimana il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ricevendo una delegazione di alunni provenienti da scuole italiane distribuite dalle Alpi alle Madonie, ha giustamente usato parole forti contro chi evade il fisco. "L’evasione fiscale è l’esaltazione della chiusura in se stessi", ha detto; chi se ne rende responsabile ignora "che si vive insieme e che la convivenza significa contribuire tutti insieme alla vita comune".

Insomma chi evade, sfrutta chi invece assolve ai propri obblighi compiutamente, perché utilizza i servizi comuni senza contribuirvi secondo le proprie possibilità. Sono parole dalle quali è difficile dissentire; il contributo che secondo le possibilità di ciascuno deve essere offerto all’organizzazione comunitaria in forma di carico fiscale è forse la principale manifestazione cooperativa, in un’organizzazione sociale ben organizzata. Ma le parole del Capo dello Stato scolpiscono solo un lato del problema, quello fenomenicamente più evidente. L’antonomastica punta dell’iceberg.

Perché la diffusa evasione, che non riguarda affatto solo i grandi evasori fiscali – sono ovviamente essi, quelli moralmente più responsabili – ma che s’incrocia, per esperienza di ciascuno di noi, in molteplici livelli ed in tante occasioni di scambio economico, è l’espressione d’un malessere assai più profondo, radicato in cause diffuse. È giusto quanto Sergio Mattarella ha detto: il fenomeno del dilagante adempimento agli obblighi fiscali è un problema di cultura, ancor meglio, di mentalità.

Vero, perché quando una condotta sociale si riscontra stabilmente, significa semplicemente che essa è condivisa, interiorizzata, che si avverte come giustificata e sostenuta – apertamente o meno – dal sentire collettivo. Se non fosse così, non potrebbe tanto ampiamente riscontrarsi, e non solo per il timore delle sanzioni legali – che pure ha il suo ruolo – quanto piuttosto per quell’efficacissima pressione esercitata dalla riprovazione sociale di una condotta considerata deviante. Ed allora c’è da chiedersi come sia possibile che l’Italia tanto si caratterizzi per la tendenza ad evadere il fisco, sia con mezzi sofisticati, ma anche in forme molto elementari, semplici. Allora, se lo sguardo s’estende, il fenomeno non diverge troppo da quello, ancor più generale, della disaffezione per il collettivo, per il momento cooperativo, del difetto di senso d’identità nazionale, insomma non diverge troppo da quell’asocialità tipica del popolo italiano.

Ma i fenomeni culturali – perché di cultura si tratta, nella sua più ampia accezione – hanno radici profonde, in certo senso non sono artificialmente realizzabili. Se non si crede nello Stato e si lavora ai suoi danni, è certo anche perché lo Stato non s’è fatto apprezzare per cura del cittadino e dei suoi generali interessi. Non si è fatto storicamente apprezzare per quell’opera di coesione della società, di appianamento dei divari, di sagace amministrazione delle risorse pubbliche, di religiosa cura dei beni collettivi, di educazione alla moralità civile: direi che non si è fatto apprezzare per il senso di responsabilità delle sue dirigenze.

Gli infiniti episodi di corruzione; gli innumeri esempi di sperpero di risorse pubbliche, letteralmente dilapidate senza che nulla sia tornato alla comunità: uno degli ultimi e più disastrosi scandali sotto questo riguardo – sotto il riguardo dell’esempio che si offre alla comunità di condotte alienanti e disamoranti – l’abbiamo tragicamente in corso con il Mose: dove un progetto trentennale ed investimenti per circa 7 miliardi di euro non hanno prodotto nulla, come ha dimostrato il terrore d’azionare quelle, peraltro ancora incomplete barriere, affondate alle porte della Laguna: e Venezia è finita sott’acqua, insieme all’amor proprio italiano.

Ecco, quando si parla di fisco, se non si vuol rimanere alla superficie del fatto, o, peggio, far vuota retorica che concorrere ad aggravare il distacco tra la comunità ed i suoi apparati, le domande devono andare oltre, il tema deve essere differentemente prolematizzato, le responsabilità devono certo imputarsi ai cittadini che non onorano i loro doveri verso lo Stato; ma non può dimenticarsi nemmeno quanto lo Stato non onori i suoi doveri verso i cittadini, tra l’altro offrendo servizi pubblici essenziali – solo per dire: sanità e smaltimento rifiuti – a livelli infimi, tanto infimi che talvolta non si riconoscono nemmeno come servizi prestati, apparentandosi di più ad attività di sabotaggio degli interessi collettivi.

Se le domande non vengono esplicitate su d’un piano più strutturale, se lo Stato non dimostra d’avere preso coscienza delle sue gravissime responsabilità nella formazione della mentalità collettiva, si potrà esser certi che tutto rimarrà come prima, anzi procedendo si consoliderà.

ORAZIO ABBAMONTE