DI LUCIA ANNUNZIATA

Se questo fosse un Paese normale, e il nostro fosse un Governo efficiente, e i capi dei partiti fossero responsabili, come pure ripetono di essere, oggi noi discuteremmo delle possibili dimissioni del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Questione non di punizione, per carità, ma di opportunità e sicurezza.

Il segretario di Stato Mike Pompeo, poche ore dopo l’assassinio del generale Qassam Soleimani, ha parlato, per spiegare le ragioni americane, con i ministri degli Esteri di diversi paesi alleati, europei inclusi. Ma ha escluso l’Italia. Un’omissione che nelle drammatiche circostanze di queste ore appare come una scelta gravissima, qualcosa che somiglia a un incidente politico. O no? La versione che informalmente arriva dalla Farnesina è che Pompeo ha chiamato i paesi con una rappresentanza nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma rimane comunque inspiegabile perché un alleato dell’importanza dell’Italia non sia stato contattato neanche informalmente - neanche Palazzo Chigi - né sia stato considerato nelle ore e nel giorno successivo.

Qui le domande diventano tante. Come mai non siamo entrati nella lista di Pompeo? Certo non sarà un svista – queste telefonate sono accuratamente preparate, persino nell’ordine in cui vengono fatte. Se non è una svista, sarà frutto di un incidente diplomatico occorso con gli Usa, di cui non sappiamo molto? In un caso del genere avremmo comunque avuto almeno un segnale dagli Usa. Né può essere stata una scelta di campo della Washington di Trump contro un Governo che considera non simpatizzante, visto che questo è il Governo sdoganato questa estate proprio da un caloroso tweet del presidente Trump in cui lodava “Giuseppi”.

Domande tante e non una risposta è arrivata da una classe politica rimasta in un silenzio quasi totale. Salvo una breve comunicazione del ministro della Difesa Lorenzo Guerini sul fatto che per i nostri soldati all’estero “sono state innalzate le misure di sicurezza”. C’è poi un appello attribuito da fonti di Palazzo Chigi al Premier Giuseppe Conte “alla moderazione, al dialogo, al senso di responsabilità  delle parti”, e un identico appello “al dialogo e alla responsabilità” del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Quest’ultimo, fotografato in attesa di un volo per tornare in Italia, ma non preoccupatevi, non ha rotto le regole M5S perché ha preso un volo di linea. L’universo politico che ci informa con interviste permanenti, nelle ultime 24 ore non ha trovato il tempo o le idee per dire qualcosa di meglio agli Italiani, non fosse altro per rassicurarli. 

È questo dunque, davvero, il punto in cui siamo? Siamo stati esclusi dalle consultazione di Washington alla vigilia di una nuova fase drammatica in Medio Oriente, dove abbiamo qualche migliaia di uomini e dove abbiamo contato non pochi morti, e dobbiamo accettare di non sapere come intendiamo muoverci? Dobbiamo accettare che gli interessi che abbiamo in Iran siano una tomba anche della nostra inquietudine? O più semplicemente dobbiamo immaginare come inevitabile che saremo parte di questo conflitto senza che nessuno ci spieghi esattamente nemmeno quali sono le forze in campo, qual è la differenza fra sciiti e sunniti, e fra sciiti e sciiti, fra interessi da una parte o dall’altra?

Certo in tutto questo non c’è una colpa del ministro Di Maio. Abbiamo un problema di irrilevanza del paese che risale nel tempo di almeno un paio di decenni, mentre il ministro è entrato in carica solo a settembre, e gli Esteri non sono davvero il suo mestiere.

Ma non si può nemmeno accettare che un ministro di primissimo piano, nonché capo politico di uno dei due maggiori partiti di governo, non assuma la responsabilità piena del suo incarico.

L’esclusione di Pompeo è uno smacco per il nostro paese, ci piaccia o meno. È il risultato, uno dei tanti, dell’instabilità e della inaffidabilità che ha contraddistinto il nostro ultimo anno e mezzo di due governi. Ma Luigi Di Maio, a sua volta, in questi suoi primi tre mesi di incarico non può vantare grandi contributi.

L’Italia ha dato segnali di recupero in Europa, ma il dossier europeo è fuori dalle mani se non della Farnesina, certo del ministro, gestito com’è nei fatti da una sorta di Troika Italiana, composta da Paolo Gentiloni, Roberto Gualtieri e David Sassoli.

Il rapporto con l’America di Trump è passato nelle mani di Palazzo Chigi e del Quirinale. Per quel che riguarda gli Stati Uniti, i primi due viaggi di Di Maio, uno a novembre del 2017 appena nominato capo politico e l’altro a marzo del 2019, si sono distinti soprattutto per la mancanza di incontri rilevanti. Solo al seguito della visita del presidente Mattarella, nell’ottobre scorso, è riuscito a entrare alla Casa Bianca.

Sulla Cina ricordiamo, a parte le gaffe, che il tema più divisivo, Huawei e il 5G, non è nelle mani di Di Maio, ma di Palazzo Chigi e dei Servizi. Della Libia meglio non parlare. Nel carniere del ministro degli Esteri, dunque, non ci sono grandi successi, e in un paese in cui la collocazione nei confronti degli Usa è stata alle radici di fortune e sfortune di politici, dalla caduta di Giulio Andreotti a quella di Bettino Craxi, un bilancio del genere avrebbe costituito una volta un epitaffio su una carriera.

È inutile girarci intorno. Il capo politico dei 5 stelle non è preparato per la Farnesina che, del resto, come ben si sa, è stata chiesta per lui dal Movimento 5 stelle per “rafforzare” il suo ruolo politico. La politica estera è una specializzazione e Di Maio non ha avuto né il tempo, né forse la vocazione, per specializzarsi. In politica, l’uomo sa fare bene quello che serve al suo partito. Impara presto e sa combattere. Non a caso il suo ruolo più rilevante è quello di capo politico M5S.  E infatti è il lavoro a cui si dedica indefessamente: oggi si è visto con Nicola Zingaretti per decidere sulla verifica di governo, e martedì affronterà la questione delle espulsioni dal Movimento.

Ma, e questa è la domanda, in tempi che ogni giorno diventano sempre più complicati e difficili, con altre guerre all’orizzonte, ci possiamo permettere di tenere alla Farnesina un uomo che non è tagliato, né formato, per quell’incarico, e soprattutto che non lo esercita a tempo pieno? La risposta la conosciamo: nessun ministro si può toccare in questo Governo, meno di tutti Di Maio, pena una crisi interna.

Ma speriamo che nel suo cuore il Governo sappia la verità: che mettere le ragioni interne di un Governo davanti alla responsabilità di come viene condotta la Farnesina in epoca di scontri internazionali costituisce un grave errore politico.