Poiché la situazione di partenza è 2-0 per il Pd contro il resto del mondo (destra e M5S sono all’opposizione sia in Emilia Romagna che in Calabria) è quasi certo che nelle prossime ore avremo un mutamento degli equilibri. È però evidente a tutti che a fare la differenza "vera" sarà il risultato della sfida più a nord, per ragioni che è inutile stare qui ad elencare. Vale quindi la pena concentrarsi sugli effetti di quel risultato, perché saranno comunque assai significativi. Cominciamo dall’ipotesi di conferma del governatore uscente, cioè Stefano Bonaccini. La maggioranza giallo-rossa ne esce rasserenata, almeno nel breve periodo (in tarda primavera si vota in sei regioni, comprese Toscana e Campania, oggi a guida Pd), anche se con un importante spostamento degli equilibri interni. È infatti chiaro un punto di questa campagna elettorale emiliano-romagnola: contro la coalizione di destra a trazione salviniana si è battuto solo il Pd con il suo bravo governatore, appoggiato (dall’esterno) dal movimento delle Sardine, mentre il M5S si è chiamato fuori, scegliendo (di fatto) una collocazione tutto sommato più utile alla destra che alla sinistra. Quindi una vittoria di Bonaccini produrrà a livello nazionale un rafforzamento della posizione del suo partito nella coalizione di Governo, rafforzamento che avrà un immediato effetto sulla tornata di nomine ma che potrebbe anche giungere (in tempi tutti da definire) alla riformulazione della squadra di Governo o, addirittura, alla nascita di un nuovo esecutivo. In caso di vittoria della Lucia Borgonzoni invece lo scenario diventerà assai più complesso e turbolento, anche perché finirà per sovrapporsi alla complicata vicenda della riscrittura della legge elettorale (passaggio ineludibile dopo il voto definitivo del Parlamento sulla riduzione dei membri di Camera e Senato). Qui c’è una sola certezza, cioè il fatto che Salvini (e Meloni) chiederanno a gran voce al capo dello Stato di riportare l’Italia alle urne, in omaggio ai mutati (ed a quel punto evidentissimi) equilibri politici non più saldamente rappresentati in Parlamento. Ecco allora il punto più delicato della vicenda, che merita una riflessione da avviare in queste ore. Riflessione che può essere articolata in tre passaggi. Primo: sul piano politico quella richiesta sarà perfettamente comprensibile e andrà quindi presa in esame, per cui tutte le forze in campo (dentro e fuori il Parlamento) ne dovranno discutere (vale anche per Pd e M5S, anzi forse soprattutto per loro). Punto secondo: Salvini e Meloni commetterebbero un grave errore se decidessero di puntare l’indice sul Quirinale (per molti versi lo stesso errore che nel 2018 fece Di Maio parlando in modo insensato di impeachment). Non è il capo dello Stato a che deve decidere quando si vota, poiché egli è chiamato a verificare se esiste una maggioranza in Parlamento in grado di formare un Governo e, in caso negativo, prenderne atto e convocare i comizi elettorali. Sia chiaro, il presidente della Repubblica non è un gelido notaio. Può influenzare, suggerire, stimolare. L’ha fatto Scalfaro a suo tempo, l’ha fatto Napolitano e così Pertini e altri. Però sarebbe miope ad anche piuttosto "sgrammaticato" se i leader della destra italiana finissero per aprire un duro confronto diretto con il Colle. Punto terzo: dev’essere il Parlamento il luogo delle decisioni. Vorranno Salvini e Meloni (sarei meno certo sulle intenzioni del Cavaliere e di quel che resta di Forza Italia) fare tutto ciò che possono per tornare a votare quanto prima? E nel loro pieno diritto, quindi agiscano in tal senso nelle Camere. Si rendano cioè capaci di attrarre dalla loro parte un numero sufficiente di eletti (o interi partiti) tale da rendere evidente al capo dello Stato che non c’è più una maggioranza credibile e che quindi tornare alle urne è soluzione doverosa. Così è andata in Spagna in questi ultimi anni e così in Israele, tanto per fare due esempi. Le regole, in democrazia, sono sostanza alla stato puro. ROBERTO ARDITTI