La mezzanotte fatidica è scattata ormai da un pezzo. L’Inghilterra non è più ufficialmente in Europa. Lacrime, rabbia, tristezza, molti i sentimenti che hanno alimentato commenti riempiendo pagine e pagine di giornali. Ma dalla mezzanotte del 31 gennaio 2020 la questione più importante, resta, oltre al destino di circa 3 milioni di europei residenti in UK, la gestione delle aziende europee. Cosa cambierà per loro? Che effetti avrà la Brexit sulle importazione dei prodotti UE? E le aziende Italiane, radicate da decenni nell’isola? Che fine faranno? Pagheranno dazi? Per le imprese italiane ed europee che operano in Gran Bretagna la data del 31 gennaio 2020 non ha alcun valore pratico. Cioè non rappresenta un cambiamento. Almeno per il momento. Vediamo l’esempio di una grande azienda italiana. La Doria un’impresa che in Gran Bretagna ha il suo primo mercato. La Doria, occupa la prima posizione in Italia e in Europa per la produzione di pelati e polpa di pomodoro, di legumi conservati, ed è il secondo produttore di succhi di frutta. La Gran Bretagna è di gran lunga il mercato principale per quest’azienda campana specializzata nella collaborazione con le grandi catene della distribuzione organizzata. Controllata per il 63% dalla famiglia Ferraioli, La Doria è quotata a Piazza Affari dal 1995 e oggi capitalizza circa 280 milioni di euro. Negli ultimi tre anni il groviglio Brexit ha pesato sulle quotazioni del gruppo, con il prezzo delle azioni che è rimasto sostanzialmente inchiodato a 9 euro nonostante il fatturato sia cresciuto ogni anno di circa il 3%. La Doria produce i pelati, i legumi e i succhi che in Gran Bretagna sono venduti con i marchi dei supermercati Tesco, Sainsbury, Waitrose, Lidl, e di molte altre catene, per un totale di vendite pari a 350 milioni di sterline all’anno (415 milioni di euro). Per La Doria la Gran Bretagna vale circa la metà del fatturato complessivo del gruppo, che nel 2019, secondo le stime degli analisti, è stato di 710 milioni di euro (+3,2% sull’anno precedente). La Gran Bretagna è il principale mercato del gruppo La Doria che comunque resta attivo in circa 50 Paesi. In Italia La Doria realizza il 18% dei ricavi, il 62% viene dal Nord Europa (Gran Bretagna, Irlanda, Scandinavia, Benelux), e una quota significativa (5%) da Australia e Nuova Zelanda. "Per quanto riguarda i rapporti commerciali con l’Unione europea, - precisa Antonio Ferraioli, 66 anni, presidente e amministratore delegato di La Doria-la legge approvata dal Parlamento inglese non è altro che un accordo per fare un accordo entro la fine del 2020. Quindi, da qui a dicembre non cambierà nulla, tutto rimane invariato". Nulla di certo dunque, ma tutto rimandato alla fine del 2020.Il rischio più grande è che vengano applicati dei dazi. Nel corso dei prossimi 11 mesi vedremo si svolgerà il negoziato. Per quanto riguarda le aziende, come la Doria, il problema che si pone, non saranno solo i dazi, ma norme sanitarie, etichettature e altro. Gli inglesi, dal canto loro, fanno intendere di non volersi allineare alle normative europee, ma giurano che detteranno nuove regole. Prima ancora dei dazi, per le aziende europee che esportano nel Regno Unito c’è il rischio degli intoppi logistici, che secondo alcuni esperti potrebbero diventare un vero incubo. Cosa succederà se dal 2021, in mancanza di accordi, le merci in entrata in Gran Bretagna dovranno essere controllate alle frontiere con lunghe procedure che faranno dilatare i tempi di consegna? La Doria , per fronteggiare questo pericolo e’ corsa ai ripari con un maxi-investimento: ha costruito in tempi record a Ipswich un nuovo, grande, magazzino, totalmente automatizzato. La struttura è costata 50 milioni di euro, circa la metà del totale degli investimenti previsti dal gruppo per il periodo 2018-2021, e dovrebbe permettere di fronteggiare le probabili lungaggini della dogana senza fare mancare le merci ai clienti. Per i prodotti che non si possono produrre in Gran Bretagna, come i pomodori, il risultato sarà quello di fare salire il prezzo alla clientela finale. Dove invece ci sono concorrenti locali, come nella produzione dei fagioli, chi importa dall’estero inizialmente rischierà di perdere quote di mercato, anche se con il tempo sicuramente i produttori locali alzeranno i prezzi allineandoli a quelli degli importatori che pagano il dazio.

MARGARETH PORPIGLIA