Ci sono storie che non hanno bisogno di essere raccontate, restano sospese nel tempo infinito, nell'aria che ci circonda, fra cielo e terra, che spariscono in una fitta nebbia per poi riemergere limpide a ricordarci il ritmo inesorabile e cadùco della nostra vita. Un ritmo segnato, come in un pentagramma, da pause, andante con moto, presto, adagio, prestissimo, fortissimo, che ci guida nella nostra esecuzione, ma che ognuno può variare, nei canoni dello spartito originale, con una propria personale interpretazione. Siamo milioni di variazioni sul tema, è questa l'unica libertà d'arbitrio che ci resta. È l'irrisolvibile dilemma del trascorrere un giorno da leoni piuttosto che cento da pecora, la differenza fra il senso estremo, la ricerca dell'eccellenza o passare un'esistenza nel grigiore monotono del quotidiano, in quella che Orazio definiva "aurea mediocritas".

Dov'è la dimostrazione del nostro coraggio? In una intervista del 2015, Kobe Bryant, grandissimo atleta, comunicatore e personaggio osannato per la sua versatile personalità, ammetteva che senza motivazioni finalizzate alla costante ricerca della "perfezione" professionale, economica e personale, non sarebbe stato in grado di vivere. Perché Kobe pretendeva da se stesso di primeggiare nello sport, in ricchezza e anche come padre. Non aveva tempo da perdere. L'acquisto di un elicottero si era reso necessario per non tralasciare mai il contatto con la famiglia, nonostante i suoi numerosi impegni, ma, come spesso succede per i numeri uno, il fato gli ha presentato il conto. Per altri sono state tremende malattie debilitanti, per alcuni il costante sberleffo, una sfida sfrontata alla morte, ma tutti hanno un tratto in comune: la scomparsa prematura, tragica o violenta, li ha consegnati alla leggenda.

Il firmamento mondiale è costellato di astri e stelle cadenti, mai meteore. Non li possiamo dimenticare, anzi viviamo nel loro culto. Come mai, vite al limite di personaggi talmente famosi, imperfetti per la loro umanità, ma eroi nel nostro immaginario, accendono la nostra fantasia, fino a condizionare a volte la nostra esistenza? Perché siamo normali per lo più, individui mediocri alla ricerca costante di nuovi miti, semidei ma ancora semiuomini, che ci mostrino il cammino verso una metamorfosi esistenziale per affrancarci dal silente, rassegnato decadimento quotidiano. Le stelle, i nostri eroi, come Kobe, ci riconducono in fondo ad un atavico paganesimo, all'esaltazione delle gesta umane in antitesi alla forza degli dei, alla fatalità del destino, liberandoci, anche se per un attimo, dal pesante fardello tradizionale e mistico della fede. Una lotta continua senza vittorie di merito da secoli, che ha visto contrapporsi gli ideali del politeismo classico, mortificati e rigettati dall'avvento delle religioni monoteiste, ebraismo, cristianesimo e islamismo.

Achille, Eracle, Perseo, Giasone, Ulisse, cedono il passo a Sansone e David, a Daniele, a Maometto e i suoi profeti, ai Santi che costellano l'Empireo cristiano. Il senso eroico della vita cambia. Niente gesta estreme fra terra e cielo, fra successo e ricchezza, opulenza e grandezza mondana, ma una nuova via alla perfezione attraversa privazioni materiali, testimonianza di povertà, martirio. Non esistono idoli, ma quel disagio originario che ci ricorda di essere "figli di Caino", non sempre semplifica il nostro cammino verso la fede, anzi esalta il nostro lato oscuro, il nostro egoismo ed il desiderio di assecondare le nostre vanità. Perciò sentiamo il bisogno di credere in nuovi eroi "terreni", celebrarli: in fondo sono come noi vorremmo essere, perchè è nella nostra natura desiderarci vincenti piuttosto che vittime. Almeno sono eroi "positivi", soddisfano, anche se superficialmente, l'esempio evangelico della parabola dei talenti, lasciandoci una via di scampo, una "espiazione interiore" per aver tralasciato il cammino aspro, privativo della fede, ed aver creduto che, anche se breve ed intensa, ma ricca di fama e successi, una vita come quella di Kobe Bryant valga sempre d'essere vissuta.

ANONIMO NAPOLETANO