E ora, finita la discussione parlamentare, comincerà la passione. Perché con il voto che autorizza il processo a Matteo Salvini, comincerà, vi è da scommettere, un lungo, lunghissimo tempo di retorica del vittimismo, con il difensore dei sacri confini messo sotto accusa da un sistema istituzionale che preferisce la difesa dei diritti a quella della patria. Questo sarà il canovaccio della lunga battaglia salviniana – una vera e propria campagna elettorale ― che appesantirà il discorso pubblico nei mesi a venire. Un canovaccio già anticipato dalle dichiarazioni salviniane in aula: "La difesa della patria è un sacro dovere, ritengo di aver difeso la mia patria, non chiedo un premio per questo ma se ci deve essere un processo che ci sia. In quell’aula non andrò a difendermi ma a rivendicare quello che, non da solo, ma collegialmente abbiamo fatto". Quindi, lui non deve difendersi, sono le istituzioni, in questo caso i magistrati, che dovranno difendersi dall’accusa del’ex ministro di essere, loro, i veri ostacoli a chi vuole perseguire l’interesse nazionale. I realisti, di tutti i colori politici, sono già pronti a dar manforte a Salvini. Nei talk-show televisivi e sui giornali. Diranno che i magistrati devono smettere di occuparsi di politica, e devono lasciare governare i governi. Diranno poi che è la violazione di un diritto su una specifica persona il reato da perseguire, non la politica di un ministro le cui decisioni rispondono agli interessi generali del paese, sono politiche non morali. È su questa base lasca di principi e densa di realismo amorale che riposerà la retorica di supporto, quella che farà da contorno alla propaganda salviniana. Non illudiamoci che sia una passeggiata. Questo processo sarà trasformato in un rito di persecuzione del vero patriota. E il rito è fatto di due attori: da un lato, la giustizia procedurale e formale, dall'altro la giustizia politica in carne o ossa. La prima, attenta a controllare il rispetto delle norme, la seconda concreta e vicina al sentire del paese che, sembra di capire, segue un solo discorso, ben oliato da Salvini: quel che viene da fuori è un male dal quale bisogna difendersi. Salvini sacrifica se stesso per tutti i noi. La difesa dei sacri confini della patria ci porta indietro di qualche decennio, quando Benito Mussolini nel 1936 girò le spalle alla condanna della Società delle Nazioni dell’invasione italiana dell’Etiopia. Il regime fece esporre targhe in tutti i comuni a condanna della "perenne infamia". Anche allora i sacri confini della patria (estesi a quanto pare fino all’Africa dell’antico Impero) chiedevano il sacrificio del diritto, della giustizia, dei valori. Tutta roba per legulei e intellettuali moralisti, non per il popolo vero che invece capiva, e capirebbe ancora oggi secondo Salvini, solo gli interessi vicini del "qui ed ora", costi quel che costi. Questa è l’omelia, antica e moderna; sempre la stessa. Ma allora, l’Italia non aveva firmato la Dichiarazione universale dei diritti umani e nemmeno le convenzioni per i rifugiati e i richiedenti asilo. Questa Italia ha quasi gli stessi confini di quella fascista, ma non è la stessa. Questa Italia ha fin dalla sua Costituzione proclamato il rispetto dei diritti umani e delle convenzioni internazionali – i diritti e le convenzioni non sono nemici. Nemici sono, coloro che li violano anche stando al governo.

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