I l grande giornalista e intellettuale Giuseppe Prezzolini scriveva già centodieci anni fa, a cavallo tra il 1911 e il 1912 dell’importanza di puntare sulla tratta ferroviaria tra Napoli e Bari, che avrebbe trasformato la nostra città nella porta di accesso al Sud e, al tempo stesso, collegato il Mezzogiorno al resto del Paese. Più di un secolo dopo, quest’anno, questo collegamento si declina ancora col verbo futuro: saranno appaltati lavori per sei miliardi per raddoppiare il binario (121 km), scavare nuove gallerie (63 km), realizzare nuove stazioni e dunque riuscire ad aumentare il traffico e quasi dimezzare i tempi di percorrenza grazie all’alta velocità. Entro il 2026 dovrebbe diventare possibile scendere da Napoli e Bari (e viceversa salire) in poco più di due ore e non più in tre ore e mezza abbondanti come accade oggi. Chi ha ancora fiducia nel domani, in questa ennesima programmazione ci può pure vedere il bicchiere mezzo pieno. Però l’altra metà - quella mancante - è decisamente più evidente. È la solita, triste, storia di indecisioni, lungaggini, opposizioni pregiudiziali sul modello "no tav" e i tanti pasticci all’italiana che hanno trasformato quest’opera - come decine di altre - nell’ennesima incompiuta. Già perché la prima firma sul raddoppio della linea Napoli - Bari è datata dicembre 2004: le Regioni Campania e Puglia lo inserirono nei rispettivi atti di programmazione. Per arrivare al sigillo del protocollo con le Ferrovie dello Stato ci vollero poi due anni, dal momento che è stato firmato nel 2006. Basta fare due calcoli, allora: nella migliore delle ipotesi, dalla decisione presa sul territorio all’inaugurazione dell’opera, saranno trascorsi venti anni. Ecco perché Giuseppe Conte, annunciando trionfante "un contratto di programma con Reti ferroviarie italiane e con Anas molto corposo" che includa la clausola per il 34% degli investimenti pubblici al Sud, ha dimostrato soltanto di non conoscere la realtà e soprattutto quali sono i veri problemi del Paese. Giusta la clausola, ma Tav, Tap, la riconversione di Ilva, l’eterno pasticcio di Bagnoli e decine di opere piccole e grandi sono state fermate per anni non dalla mancanza di investimenti, ma, al contrario, dalla scarsa lucidità e lungimiranza delle classi dirigenti. Del resto, chi può sinceramente credere alla fondatezza dell’impegno preso da questo Governo a Gioia Tauro sugli investimenti di Anas, se è stato scritto su di un fascicolo, intitolato "Piano Sud", ma con in copertina il golfo di Trieste? Non serve aggiungere altro. Il problema non è soltanto quello di direzionare le risorse, ma di consegnarle nelle mani di chi le sa utilizzare per il bene comune. È la solita, vecchia, storia secondo cui il Sud potrà riprendersi soltanto quando - finalmente - i cittadini del Sud saranno governati da amministratori amici (o tifosi) dello sviluppo e della crescita, con una idea di futuro, competenti e capaci. Guarda caso, invece, i partiti alleati di Giuseppe Conte, azionisti di peso del suo governo di sinistra a trazione grillina, non ne ospitano neanche uno. Con quale credibilità si può un anno fermare la Tav in Piemonte e quello dopo promettere investimenti sull’alta velocità in Campania e in Puglia? Nessuna. Per imprimere una svolta non bastano le parole, perché le idee camminano sulle gambe degli uomini. Molto possono fare gli elettori, ma non da soli. Se il premier davvero credesse nella rinascita del Sud e volesse far sul serio col suo piano, avrebbe dovuto già chiarire la necessità di separare le sorti del partito che lo ha indicato da quelle di due amministratori che non hanno saputo essere all’altezza delle aspettative di sviluppo dei cittadini meridionali come Vincenzo De Luca e Michele Emiliano. Avrebbe dovuto ergersi al di sopra dell’interesse alla sua personale sopravvivenza politica e porre in modo chiaro la vera questione che continua ad inchiodare il Sud all’immobilismo, ai perenni ritardi e alla vaghe promesse. La mancanza di volti nuovi che sappiano guidare quel rinnovamento - innanzitutto morale oltre di idee - che il Nostro Posto ha diritto di pretendere da chi si candida a guidarlo.

SEVERINO NAPPI