Adesso il "Mattino" è emigrato a Torre Francesco nel Centro Direzionale, mentre il "Roma" se n'è andato a Santa Lucia di fronte al mare, e si sono spente le luci del Chiatamone lasciando tra quei marciapiedi alle spalle di via Caracciolo un po' di storia e un po' di poesia di Napoli. Forse tanta. E il Chiatamone non è più la strada dei giornali. Lo era diventato nel '62 quando il "Mattino" lasciò la sede di Vico Rotto San Carlo (poi diventata ovviamente piazzetta Matilde Serao). Mio padre ci ha lavorato una vita, forse di più. E si lavorava sempre, e il 31 dicembre telefonava dal giornale a mezzanotte per farci gli auguri sotto i botti di Capodanno. E il ricordo nitido è quando uscivo per andare a scuola e lui rientrava con i giornali sotto il braccio. E l'odore del piombo era l'inizio della giornata. Sempre. E lui, stanco, sedeva in cucina e poggiava i giornali sul tavolo e mi diceva: se vuoi imparare a scrivere leggi Giovanni Ansaldo. E io lo facevo, ogni pomeriggio, e non so se mi è servito. Insomma, il "Mattino" è stato sempre l'inizio e la fine di ogni cosa, il commensale di pietra, presente nei discorsi e nei progetti di mamma e papà, elemento irrinunciabile della nostra quotidianità, un elemento fondante, un vizio assurdo (come avrebbe detto Pavese), che cadenzava la nostra vita giorno dopo giorno. E notte dopo notte. E poi c'era il "Roma", il "Roma" in via Marina e le prime collaborazioni da invisibile osservando da lontano gli inarrivabili, i redattori (Novi che progettava di cambiare il mondo, Pugliese nascosto dal fumo della sua sigaretta, Filosa sempre allegro, Bruzzano che fingeva sempre di essere incazzato. E un giovane Sasso, che era già lì) fino a che Lauro affondò e trascinò sul fondo anche la tipografia con i suoi odori, gli umori, i sogni e le bestemmie. E molti, moltissimi, bussarono al "Mattino", anche quelli che fino al giorno prima erano stati fascisti e monarchici e che divennero pomiciniani, gavianei e scottiani perché l'Edime era l'Edime e il Banco di Napoli era meglio di un ministero. Adesso la chiusura del Chiatamone per molti è stato un pezzo di vita che finisce, per me è il riassunto di una storia familiare, è mio padre, sono le sue telefonate sotto i botti di Capodanno. E il "Roma" è stato il sogno impossibile che diventa realtà. C'erano i redattori, i praticanti, gli abusivi invisibili ma insostituibili, i dimafonisti, i tipografi, il proto, i correttori di bozze. E poi c'erano loro, le tastieriste, che erano una storia a parte, un luogo dello spirito, una categoria protetta. Protetta da noi, che senza di loro saremmo stati ancora a tentare di chiudere oggi una pagina di quotidiano del 1990. Le tastieriste arrivavano serie, compunte e impettite e prendevano posto davanti al computer e a una pila di pezzi dattiloscritti (e talvolta manoscritti) che arrivavano dalle lontane province dell'impero grazie al miracoloso fax che i corrispondenti utilizzavano per far arrivare i propri articoli. E qualcuno di loro che non aveva voglia o soldi per andare a fare un fax dal tabaccaio chiedeva di essere richiamato per dettare il pezzo a voce. E il pezzo digitato poteva essere consegnato e impaginato dopo 5 minuti o mezza serata. Questione di feeling con le tastieriste. E così si finiva per entrare in confidenza con qualcuna di loro, a cui si finiva inevitabilmente anche per affidare o ricevere qualche scheggia di emozioni e di vita privata. I figli, il mutuo, un capriccio del cuore. Dal cuore alla memoria: Pina, Silvia e Cinzia, Filomena, Anna, e sicuramente altre che dimentico. Qualcuna confidava sogni e speranze, a qualcuna confidavamo sogni e speranze. Sembravano figure uscite dall'immaginazione di De Sica e Zavattini, personaggi da neorealismo, di un neorealismo che forse è finito quando si è spento il Chiatamone.

SERGIO CALIFANO