Coronavirus a Genova: chiuso anche il mare, vietato tuffarsi. Nella città deserta e rarefatta raggiungo il mare, che sembra l’unico orizzonte libero dalle restrizioni, dai divieti. Mai come oggi sembra un orizzonte aperto, salubre, senza rischi, se non quello delle sue onde quando sono pericolose, delle sue correnti, quando ti spingono al largo, magari delle meduse urticanti, quando improvvisamente lo riempiono. E’ il mio habitat, è la mia terapia, soprattutto d’inverno, quando la sua temperatura scende e i tuffi nella sua acqua a 11,12,13 gradi sono il mio benessere, la mia salute, la mia adrenalina, di cui mi nutro da anni e anni in uno scenario di libertà che si condivide in pochi, ma che è di una bellezza impareggiabile. Nuoti protetto solo da una cuffia in testa e dai tuoi occhialini e contempli il cielo, l’onda che ti segue, la tua città distesa oltre la spiaggia, dalla quale i rari, rarissimi frequentatori del mare invernale ti guardano come un ufo, uno un po’ matto che sfida l’ignoto di una temperatura per te rassicurante, rinforzante, per gli altri insopportabile. Nei giorni delle restrizioni totali, della zona rossa per cui si cercano di evitare anche i rari passanti nelle strade, in cui si fa la fila per entrare in un negozio a debita distanza dal tuo vicino, in cui non fai che disinfettarti e detergerti, cosa ci sarebbe di più sicuro del tuo mare, in cui nuoti da solo, in compagnia di qualche pesce guizzante sul fondo, della tua spiaggia dove non esiste la possibilità di alcun assembramento. Anzi. Provi da tempo l’imbattibile fascino di quella solitudine al sole, prima di tuffarti, il silenzio rotto solo dal vento, se c’è, dal rumore delle onde se il mare le alza, grandi o piccole come possono essere. E in quel silenzio poi nuoti, con la respirazione che si adegua alla temperatura alla quale è sceso il tuo corpo dopo pochi minuti dall’immersione. Nuoti, respiri, alzi la bracciata, giri lo sguardo in basso verso il fondo, poi lo alzi per respirare e il sole ti scalda, anche se è il sole d’inverno, più basso sulla linea dell’orizzonte, in qualche modo più amico, più protettivo. E quando mezz’ora, quaranta minuti dopo, esci, sorgi da quell’acqua frizzante, salata, è come se ti avessero ricaricato da cima a fondo, ogni muscolo è come teso, ogni energia è recuperata e magari il vento che ti sferza, la tramontana a raffica che scende dai monti o anche lo scirocco un po’ più "carico" che arriva dal largo, ti fanno un baffo. Ti senti un leone, imbattibile. Pronto a affrontare qualsiasi difficoltà, anche i tempi cupi che viviamo, anche quel maledetto coronavirus che sta cambiando la vita di tutti. Ma oggi tutto questo non si può fare. Nella Genova rattrappita dalla paura, dalle necessarie "misure di contenimento", dal comandamento "stai a casa", anche il mare è chiuso. Da un cancello sbarrato, dagli ordini del Governo che si possono interpretare fino a questo punto nel modo più pedissequo o magari con una intelligente flessibilità. Le spiagge invernali, luoghi semideserti, dove un assembramento è impossibile, dove i contatti umani, la distanza, sono misurati da decine di metri di spazio, diventano off limits. Che il maledetto virus possa arrivare anche qua, immergersi nelle onde, colpirti tra una bracciata e l’altra? Non ci credo, ma mi rassegno: il mare resta vietato non si sa fino a quando dallo scrupolo di gestori ligi e rigorosi. Mi rivolto verso la città, dove il traffico è rarefatto ancora di più, un giorno dopo l’altro, sotto un cielo azzurro di fronte a quell’orizzonte blu del mare e delle onde. Certo: nell’ultima domenica ha fatto scandalo la spiaggia pubblica di quella cartolina genovese che è Boccadasse, il borgo icona, della costa zeneise. Era gremita come nei giorni dell’estate ruggente, brulicava di un pubblico fitto e steso al sole, sulle pietre di quella piccola spiaggia, alla faccia di ogni raccomandazione per tenere la distanza gli uni dagli altri. Era la domenica della grande fuga verso la Liguria, le sue spiagge, le sue coste, il suo sole, un clima più dolce, il cielo azzurro così diverso da quello grigio basso della Lombardia e del Piemonte vicini e confinanti, schiacciati dall’epidemia, mezzi chiusi dalle zone rosse, con l’incombente diktat che sarebbe arrivato nella serata più difficile della nostra storia recente: l’Italia chiusa, l’Italia dello "stiamo tutti a casa". A Sanremo, città dei fiori, del mare, della spiaggia, della musica, erano arrivati in diecimila dal Nord lombardo e piemontese, in provincia di Imperia, propagandata con le sue tremila ore di sole, altre migliaia e code infinite di traffico. In barba alle autostrade spezzate dai lavori, dai viadotti interrotti, dalle gallerie cadenti e pericolose, si erano distese tra quelle Regioni assediate già dal coronavirus e l’oasi ligure, non del tutto indenne dai contagi, ma così a portata di automobile, un viaggio di qualche ora, il senso della libertà, del sole, del mare, della natura amica e, in più per tanti, la seconda casa, il rifugio perfetto, l’esilio dorato, il paese amico dal quale sopportare. Come in un piccolo paradiso un tempo così difficile nella città, chiusa, recintata e le notizie cupe rimbombanti ossessivamente del contagio che si allarga, degli ospedali al collasso, delle sale di terapia intensiva allo stremo di letti disponibili, i medici e gli infermieri eroi in una trincea da guerra, gli infettivologi e i virologi a tempestare di informazioni spesso contraddittorie, in una altalena tra catastrofismo e ottimismo, durante trasmissioni tv martellanti, ripetitive. Era stata una domenica di grande inganno, forse di molti sotterfugi, con il mare come una grande calamita. Il mio mare, quello che uso da tanto tempo in solitario quasi perfetto, in un silenzio taumaturgico, in un rapporto quasi esclusivo, che mi sono sempre chiesto perché non intrattenuto da altri che potrebbero beneficiarne, gratis e con grandi vantaggi di spirito e di salute. Ma la paura del contagio ora lo vieta anche a me.

FRANCO MANZITTI