Coronavirus: cala un po’, appena un po’ la velocità del contagio e subito, ma proprio subito, rispunta il teatrino politico con le sue parti fisse. Teatro, sceneggiata, comunicazione, recita per il pubblico votante. Non ce la fanno a non fare quello che sono capaci di fare, quello che fanno meglio, appunto teatro, recita, scena, comunicazione come sostituto e surrogato della realtà. Il primo, duole dirlo, è il comandante in capo e il suo stato maggiore. Giuseppe Conte si trova a dover maneggiare qualcosa che non sanno come maneggiare tutti i leader di tutti i paesi del mondo, quindi ogni critica e dubbio sul suo fare va inquadrata in questa realtà oggettiva. Giuseppe Conte, primo tra i capi di governo dell’Occidente, deve trovare, forzatamente a tentoni, una rotta tra le libertà personali e la necessità vitale di comprimerle. Giuseppe Conte, primo in ordine di tempo in tutto l’Occidente, deve salvare la salute della nazione senza ammazzarne l’economia. Sono compiti e missioni così enormi e difficili che nessuno, proprio nessuno, può dirsi adeguato.

Quindi la realtà dice: piano a criticare Conte, non si può criticare Conte come fossero giorni normali. In più si tende a dimenticare che Giuseppe Conte è diventato presidente del Consiglio in nome della sua a-professionalità politica. Per via di voto popolare e di voglia popolare è arrivata in Parlamento e al governo una tipologia umana mai e poi mai educata e avvezza alla decisione in prima persona. E mai provata nelle gestione competente della cosa pubblica. L’elettorato li ha voluti così, l’elettorato li ha messi lì se erano così. Per quel che erano in origine e per quel che sono al fondo, troppo bene si stanno comportando. Detto tutto questo, Giuseppe Conte ha una cifra di governo da cui non riesce ad emanciparsi. Obbedisce a due comandamenti.

Primo: cercare ossessivamente il consenso di tutti, consenso preventivo di tutti. Questo fa perdere tempo ed efficacia a ciò che poi finalmente si decide. E appesantisce la decisione presa di tutte le concessioni, o mezze concessioni, fatte a tutti i consultati. Secondo comandamento: non reggere pressioni. O meglio, l’incapacità di reggere pressioni. L’incredibile storia del decreto annunciato di notte via facebook che chiude le fabbriche e poi la mattina dopo il decreto non c’è nasce dalla incapacità di Conte di reggere la pressione dei Governatori, dei sindacati, dell’opposizione. Quindi, secondo cultura dell’immagine e della comunicazione come sostanza prima se non unica della realtà, Conte corre ad annunciare. E pensa che il più sia fatto: annunciare, comunicare. Non sono errori, è una cultura.

La comunicazione di Palazzo Chigi pensa che la comunicazione sia il vero reale, è questo il limite. Limite pesante in tempi normali, limite intollerabile e pure grottesco in tempi di coronavirus. Detto di Conte che non sa sottrarsi ai suoi limiti e a quelli del suo entourage, molti altri non ce la fanno, proprio loro scappa, non si tengono. I governatori di troppe Regioni: pressati dalla loro gente che muore, terrorizzati che ce la si possa prendere con loro, caricano spaventati un bersaglio, di solito il governo centrale. In piccolo è la dinamica trumpiana: il virus è cinese. I governatori delle Regioni italiane (troppi) la adottano in questa forma: il contagio che cresce è responsabilità del governo, gli ospedali che curano sono merito nostro. Lo Stato c’è, ha detto Conte nell’ultima allocuzione agli italiani. Purtroppo ci sono anche una ventina di mini Stati, molti dei quali si alzano sulle punte per apparire più alti dello Stato centrale.

Non ce la fa, non si tiene l’opposizione tutta. Ovviamente Salvini in testa. Hanno ragione nel volere il Parlamento riunito, magari in seduta permanente. Ma per che? Forte il sospetto che lo vogliano per farci teatro. Teatro è quello di gridare al timoniere folle volendo non sapere che per conoscere, esaminare, decidere cosa si può fermare e cosa no ci vogliono, sì ci vogliono ore e giorni e non minuti. Teatro è gridare chiudere tutto, tamponi per tutti…senza voler sapere che se chiudi proprio tutto niente e nessuno sul pianeta potrà risarcire tutti di tutto, neanche se i soldi li stampi, neanche se li fai stampare a casa, senza voler sapere che 60 milioni di tamponi ci vorrebbero settimane per farli, il farli paralizzerebbe i laboratori, e i risultati, arrivando la somma totale dopo un mese se basta, sarebbero una mappa inutilizzabile del contagio. Ma non ce la fanno a sta fuori dai ruoli consolidati, dalle parti in commedia, dalle parole classiche del copione e della recita per il pubblico dei giorni normali.

I sindacati hanno pronunciato, come fossero tempi normali, la parola sciopero, sciopero generale. Uno sciopero generale durante la epidemia!! Uno sciopero generale che fermi per qualche ora o un giorno anche la produzione e i trasporti e la distribuzione di alimentari? Uno sciopero generale che chiuda quel che è rimasto aperto!? I sindacati hanno il diritto e il dovere di esigere, controllare, monitorare che i lavoratori lavorino nelle condizioni di maggior sicurezza possibile e cioè distanziamento, mascherine, guanti…Questo è il compito, la missione e il potere dei sindacati. Ma dire oggi sciopero generale è parola che, fuori dalla recita, non si può sentire.

Lucio Fero