Non è una prima assoluta nella storia dell’umanità, ma le ragioni della fede divergono ancora una volta da quelle della scienza e della medicina e si ritrovano involontarie amiche della pandemia, aiutando a diffondere l’infezione. È vero che il Papa celebra messa da solo, che le foto de La Mecca deserta hanno fatto il giro del mondo e che anche la Terra Santa è di fatto off limits. Ma dalla Corea del Sud all’Iran, da Tel Aviv al cuore dell’Europa cristiana c’è chi non ha rinunciato a invocare il Signore, quale che sia il suo nome, e per farlo ha affollato moschee e santuari vari. Nel nostro piccolo persino l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini ha invocato l’aiuto di Maria e chiesto che le chiese rimanessero aperte per accogliere i fedeli. Inspiegabilmente non sono arrivati gli infermieri ma, da Fiorello al Vaticano, gli è stato spiegato che non è il caso.

Prima del devoto ‘capitano’, e lontano dal nostro Paese, altri però avevano già dato seguito a simili pulsioni. In primis fu la Corea del Sud, pronta ad affrontare il coronavirus già dai primi giorni, armata di test a tappeto e delle migliori tecnologie, non fosse stato per una questione di religione. Fino al 17 febbraio aveva 30 contagiati e zero decessi. Poi è spuntata la paziente 31, membra della Shincheonji, la Chiesa di Gesù e del Tempio del Tabernacolo della Testimonianza, setta segreta e semicristiana con 240mila seguaci in 29 paesi. Per loro, questo virus era un peccato che non va curato con la medicina, ma tenendosi per mano, ansimando in chiesa nella febbrile concentrazione devota. I membri sono tenuti alla segretezza anche con i familiari. Ed è così che i casi di Covid-19 in Corea del Sud sono schizzati.

Poi c’è stato il raduno sunnita in Pakistan a metà marzo, rivelatosi un super-diffusore che ha finito per coinvolgere una mezza dozzina di Paesi e i santuari sciiti in Iran, tenuti aperti anche quando il Covid-19 stava già dilagando. Mentre adesso è l’India ad aver scoperto come un evento in una moschea di New Delhi abbia contribuito a un quinto di tutti contagi. Non ci sono solo musulmani e indù, ma anche ebrei e cristiani. Secondo ultime stime la maggioranza degli ammalati di Coronavirus in Israele apparterrebbe alla comunità degli ultra ortodossi, più vulnerabili in considerazione del loro stile di vita: la maggior parte non legge i giornali in generale, non guarda la televisione e rifugge da Internet. Hanno famiglie numerose, con tanti figli, pregano nelle loro congregazioni tre volte al giorno e, in alcuni luoghi, vivono in quartieri affollati governati dalle leggi della Torah e dalla parola dei rabbini.

Da un focus sulla città di Bnei Brak, non lontana da Tel Aviv, una delle principali roccaforti degli ultra ortodossi nel paese, è emerso che qui il tasso di contagio (calcolato sui test effettuati) è del 34%, un terzo della popolazione totale, contro il 6% di Tel Aviv e il 10% di Gerusalemme. La polizia sottolinea la mancata osservanza, da parte di queste comunità o, perlomeno, di gran parte dei loro membri, delle restrizioni imposte dal governo per frenare icontagi. Nella città santa, nel quartiere ortodosso di Mea Shearim, la popolazione si oppone quotidianamente alle restrizioni imposte. Un gruppo di giovani ha avuto uno scontro con la polizia urlando "nazisti andate via".

In Francia, a fine marzo, è stato il pastore della Chiesa evangelica di Mulhouse a chiedere perdono per aver radunato duemila persone l’ultima settimana di febbraio e aver così innescato il primo grave focolaio del paese. Intanto, da noi, all’indomani della domenica delle Palme, le cronache raccontano di preti e fedeli a rischio denuncia perché trovati, dai carabinieri, a messa in barba alla norme anticoronavirus e alle più elementari regole del buon senso. Succede a Frascati, a Livorno, nel casertano e chissà dove altro ancora.

Riccardo Galli