La crisi economica nella quale sta precipitando l’Italia impone scelte coraggiose, con un obiettivo: iniettare nel sistema produttivo e in quello di finanza pubblica almeno 200 miliardi entro la fine dell’anno e altri 100 nel 2021. Dove trovare questi soldi? Provo a indicare cinque strade.

La prima è quella dell’aumento del debito pubblico sovrano, l’emissione dei cui titoli è ora agevolata dall’intervento della Banca centrale europea e dalla sospensione momentanea dei parametri di bilancio di Maastricht. Questo debito, tuttavia, poiché già in partenza elevatissimo e correlato a una sensibile contrazione del Prodotto interno lordo, non potrà aumentare a dismisura, pena il successivo rischio di speculazione sul debito che sarà contratto quando cesserà l’aiuto della Banca centrale. Tuttavia, è probabile che un incremento fino a 200 miliardi il sistema lo possa reggere senza eccessivi contraccolpi. Va da sé che è indispensabile immaginare fin d’ora strategie di contenimento per quando saranno ripristinati i parametri dei trattati, oppure agire politicamente per superare o rivedere i parametri stessi.

La seconda strada, che si incrocia con la precedente, è quella di incentivare i privati a investire, oltre che in buoni del Tesoro, in attività dell’economia reale. Sui conti correnti sono depositati circa 1700 miliardi e il patrimonio mobiliare privato ne supera 4mila. Detassare i guadagni sugli investimenti e remunerare, per un tempo limitato, da parte del Tesoro, il capitale investito con interessi attivi superiori a quelli di mercato, potrebbero essere misure capaci di invogliare i privati ad affrontare il rischio d’impresa. Spostare dai forzieri alle attività produttive anche solo il 5 per cento dei depositi sarebbe un risultato vincente per accelerare la ripresa.

Vi è poi un terzo canale: il debito pubblico europeo. Qui è bene essere chiari una volta per tutte: l’Europa non è uno stato federale, ma un insieme di Stati nazionali tra loro legati solo da trattati, ossia da accordi. L’Europa come Unione politica è una "incompiuta". E che sia così lo constatò per primo uno dei suoi "architetti" più dinamici e illuminati, Alcide De Gasperi, in una lettera dell’agosto 1954 al segretario della Democrazia Cristiana Amintore Fanfani. L’Italia e gli altri stati fortemente indebitati hanno senz’altro interesse a condividere con quelli meno indebitati l’emissione di eurobond, ossia titoli di debito garantiti in solido da tutti. Ma la scelta definitiva appartiene ai singoli Paesi, non all’Europa quale stato federale, perché tale non è. Questa la realtà, modificabile solo politicamente, proprio come De Gasperi suggerì in quell’agra lettera.

La storia, a questo riguardo, sembra non avere insegnato granché. Se fossero messe da parte prove muscolari, al pari di discorsi populisti e naïf sulla solidarietà, come se l’Europa e l’economia fossero mercatini parrocchiali o centri di beneficienza, e si valutassero attentamente gli accadimenti degli ultimi ottanta anni, risulterebbe chiaro che soltanto una forte motivazione politica e un’altrettanto forte motivazione economica, perché tese a risultati mutualmente convenienti, possono far nascere progetti comuni tra gli stati. Ad oggi, però, le cose stanno diversamente ed è proprio per questo che gli eurobond non vedranno la luce. Quel che forse è realizzabile è un altro tipo di debito. Si può pensare a titoli di scopo finalizzati a interventi mirati, ad esempio in ambito lavorativo o sanitario, emessi, gestiti e controllati da un organismo comune a tutti gli Stati, diverso dal Mes. Questo è ciò che realisticamente si potrebbe ottenere nelle prossime settimane.

La quarta strada è quella dei finanziamenti alle imprese concessi dal sistema bancario nostrano. La Banca centrale europea e la Banca d’Italia hanno raccomandato agli istituti di credito nazionali di evitare la distribuzione di utili nell’anno in corso e di non compiere operazioni sul capitale proprio. E ciò per indurli a mantenere fieno in cascina, utilizzabile, poi, sia per coprire le perdite sui crediti già concessi alle imprese, sia per immettere nel circuito dell’economia reale nuovi finanziamenti. Le banche, in questo modo, potrebbero iniettate 50 miliardi. Non di più, almeno nell’immediato, stando a uno studio condotto da Giampaolo Gabbi dell’Università di Siena. Diverso, ovviamente, lo scenario che si potrebbe realizzare con interventi dello stato a garanzia, peraltro già annunciati.

La quinta opzione è questa: sbloccare i 100 miliardi finora congelati nel bilancio dello stato per investimenti in opere pubbliche e smobilizzare le risorse dei fondi strutturali europei. Strade, queste, da percorrere senza tentennamenti, ma che realisticamente potranno dare risultati significativi solo a partire dal 2021 e negli anni successivi. Per poterne cogliere gli effetti positivi è infatti necessario, anzitutto, rimuovere le resistenze ideologiche di alcuni partiti della maggioranza governativa - a iniziare dal Movimento 5 Stelle per finire ad una parte dell’intellighenzia di sinistra - a realizzare sul territorio opere di cemento e asfalto, e poi modificare la legislazione sugli appalti e rivedere le regole sulla giustizia cautelare amministrativa, magari sul modello del référé francese, per evitare che un ricorso al Tar proposto da uno dei mille comitati del "no" blocchi sine diel’avanzamento dei lavori.

L’Italia ripartirà! Gli strumenti non mancano. L’auspicio è che non manchino la visione politica, la lungimiranza economia e il coraggio sociale. Anche perché, prima o poi, il conto salato di questi mesi dovrà essere pagato. Su questo è bene non farsi illusioni fin da adesso e a valere per le leggi di bilancio dei prossimi vent’anni.

ALESSANDRO GIOVANNINI