É il silenzio la colonna sonora di questi amari giorni. Lo abbiamo ascoltato, battuto dalla pioggia e lacerato dalla sirena di un’autoambulanza, in piazza San Pietro, mentre papa Francesco saliva, solo e claudicante, portando sulle spalle tutto il dolore del mondo. C’è il silenzio delle corsie d’ospedale. Nelle ore della solitudine, dell’abbandono e della disperazione, che gli angeli in camice verde, stanchi e tenerissimi, cercano di lenire con le ultime riserve di umanità. C’è il silenzio delle nude stanze delle residenze per anziani, dove l’unico angelo che passa è quello della morte. C’è il silenzio orante della preghiera. Nei mille e mille monasteri che cercano di unire cielo e terra, di tenere per mano un mondo che batte i denti e si dispera. Ma anche quello che sale dalle case, soprattutto nelle famiglie che aspettano una buona nuova. C’è il silenzio delle chiese e quello dei cimiteri, spesso senza nemmeno il brusio di una preghiera. Spente anche le voci nei teatri d’opera. Tacciono i cori negli stadi. C’è il silenzio dei campi, dei monti, dei boschi, mute sentinelle della loro bellezza appena sfiorate dalle lontane carezze del nostro stupore. Il silenzio dei fari e dei loro eremitici custodi. C’è l’operoso silenzio di tanti artigiani, che profuma di alba, di fatica, di pane. C’è il silenzio innaturale delle strade, delle piazze, dei vicoli.

Abbiamo provato a forzarlo, sventolando sui nostri balconi tricolori e canti, sorrisi e lacrime abbracci e baci. Ma siamo tornati allo scomodo e benvenuto silenzio. E allora perché scriverne? Per dirgli grazie. Perché il silenzio cerca sempre e comunque l’esodo verso la parola. Il silenzio è custode dell’interiorità, genera attenzione, accoglienza, empatia, dispone all’ascolto, al parlare misurato, al discernimento di se stessi e degli altri. Il silenzio dunque come grembo della parola, come luogo e dimensione dove dare spazio e forma al nucleo profondo della scrittura, a quel bisogno – dice Roberto Cotroneo – "di raccontare, di mettere sulla carta storie che aggiungano storie alla vita, pagine ai giorni, che possano arrivare agli altri, e aprire significati, possibilità, e persino incanto o magia. Perché raccontare e scrivere sono la cosa più naturale del mondo, e al tempo stesso difficile. Non è solo un problema di capacità tecniche. È un modo di pensare. Un modo di tradurre quello che si è in qualcosa, che sono tutti da qualche parte". Lo scrivere – secondo Italo Calvino – è tentativo faticoso, una sorta di felicità e penitenza, un continuo escludere e un ridurre. Porta il narratore ad allontanare la vita e i suoi umori, al concentrarsi tutto sulla sola pagina, il foglio bianco su cui progettare e montare rigorosi castelli di carta.

Gli piaceva l’impianto artigiano delle cose. Non amava l’esuberanza e il rigoglio dell’espressione, ma prediligeva la misura, la discrezione, la sobrietà, la concretezza, la semplicità e la leggerezza, la precisione oggettiva del dettaglio, l’esattezza. Non fine a se stesse, ma come una sorta di ordinata solidità mentale capace di contenere il disordine del mondo. Una vera lezione di scrittura giornalistica che solo nel silenzio possono trovare la loro culla. Difficile pensare ai cronisti come a degli eremiti. Di mestiere usiamo le parole, che sono il contrario del silenzio. I luoghi del nostro mestiere sono spesso le strade: rumorose, vocianti, indifferenti, intasate. Le frontiere dove incontrano le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini e delle donne del loro tempo. Eppure, proprio per questo è importante che nella bisaccia dei giornalisti, pellegrini in viaggio sulle vie del mondo, i frati cercatori delle notizie, insieme alla curiosità e all’umiltà, al taccuino e al tablet, ci sia anche una buona riserva di silenzio, per evitare che l’informazione si trasformi sempre di più in quel "brusio dell’insignificante" di cui parla il sociologo americano Todd Gitlin.

"Meraviglioso, il silenzio - ha scritto Tiziano Terzani - eppure noi moderni, forse perché lo identifichiamo con la morte, lo evitiamo, ne abbiamo quasi paura. Abbiamo perso l'abitudine a stare zitti, a stare soli. Se abbiamo un problema, se ci sentiamo prendere dallo sgomento, preferiamo correre a frastornarci con un qualche rumore, a mischiarci a una folla anziché metterci da una parte in silenzio, a riflettere. Uno sbaglio, perché il silenzio è l'esperienza originaria dell'uomo. Senza silenzio non c'è parola. Non c'è musica. Senza silenzio non si sente. Solo nel silenzio è possibile tornare in sintonia con noi stessi, ritrovare il legame fra il nostro corpo e tutto-quel che ci sta dietro".

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