Salvo colpi di scena, dal prossimo 4 maggio il Paese comincerà a muoversi ponendo fine al lungo periodo di sospensione del tempo al quale il Coronavirus lo ha costretto. Sarà una ripartenza graduale, condizionata dall’applicazione di alcune regole comportamentali inderogabili per fronteggiare il rischio di una recidiva del contagio. Ciò vuol dire che nulla sarà come prima. E, soprattutto, nessuno potrà sentirsi partecipe della vita comunitaria come lo è stato fino all’esplosione della pandemia. Potrebbe sembrare questione marginale, visto che legittimamente l’attenzione è tutta focalizzata sulla ripresa economica e sulla necessità di evitare la catastrofe sociale per un’incipiente dilagare della povertà. Purtuttavia, provare ad alzare lo sguardo per riflettere su quale vita ci aspetti dopo che le acque della pandemia si saranno ritirate e i boccaporti della versione moderna dell’Arca di Noè, sulla quale tutta l’Italia è salita per sfuggire alla furia diluviale del virus, verranno riaperti per andare incontro al nuovo giorno. Sappiamo come eravamo, ma siamo in grado di prevedere come saremo?

Già in passato abbiamo posto la domanda. Eppure, al momento, non abbiamo ottenuto risposte convincenti. È capitato di leggere riflessioni che hanno affondato il coltello nella piaga. Come, ad esempio, il commento di Paolo Becchi, filosofo del diritto, su Libero Quotidiano di ieri l’altro. Il professore, a causa del suo articolo, ha rimediato un lesto rimbrotto dal solito Vittorio Feltri. Per il mega direttore i filosofi oggi dovrebbero andarsene a spasso e non rompere le scatole ai manovratori. Feltri pensa che serva concretezza: se qualcuno ha una soluzione al dramma che stiamo vivendo si faccia avanti. Diversamente, cambi aria che non è il momento di frignare. Niente di più sbagliato. Becchi pone un problema d’identità, centrale per il nostro futuro comunitario, a prescindere dalle contingenze economiche la cui gravità nessuno si sognerebbe di negare. Si fa presto a dire: si riparte, ma come? E con quale modello di vita sociale? La politica, mai tanto debole come in questo tempo, si è appiattita sul pragmatismo delle autorità sanitarie.

Torniamo gradualmente a uscire di casa e a frequentarci, ma dovremo osservare le debite distanze. Non ci potremo mostrare in volto perché saremo coperti dalla mascherina. E non potremo toccarci, abbracciarci, sentirci fisicamente. Guanti e occhiali formeranno una pellicola isolante tra noi e la realtà. Forse deperirà uno dei sensi indispensabili alla vita: il tatto. Dovremo continuamente lavarci le mani, come per resettare la memoria del vissuto dopo ogni contatto col tangibile. Non potremo stringerci la mano per suggellare patti che invece finiranno su carte bollate online, validate da firme digitali. Sui mezzi di trasporto non potremo stare gli uni accanto agli altri, tra l’occupazione di un sedile e un altro ve ne dovrà essere almeno uno che resterà vuoto. E anche al bar o dal barbiere non sarà più consentito trattenersi a discutere, ad accalorarsi sui fatti della vita, della politica, del costume e dello sport perché le "goccioline" cariche di virus saranno sempre in agguato. E di tantissime cose dovremo fare a meno, tutte nel segno del distanziamento. In questo stravolgimento anche la grammatica dell’Eros potrebbe subire mutilazioni intollerabili.

Ora, sarà anche giusto e responsabile un mondo che definisce nuove misure di comportamento sociale ma è altrettanto lecito domandarsi: una vita così ridisegnata vale la pena di essere vissuta? Paolo Becchi nel suo scritto circoscrive il problema negandosi a un vacuo esercizio di autoerotismo intellettuale, come invece lascerebbe intendere il "venerato maestro" Feltri. È il caso dei malati terminali o di coloro che si trovano in stato di coma irreversibile. Si può scegliere di vivere come un vegetale, magari perché fedeli a concezioni sacrali della vita, oppure si può decidere che una vita priva di qualità, cioè di dignità, non meriti di essere vissuta. La nostra civiltà, di gran lunga superiore a molte altre presenti sul pianeta, è stata fondata sul principio inalienabile dell’interazione sociale. Oggi il nemico invisibile ci obbliga, per sopravvivere, a mutare radicalmente paradigma esistenziale. In qual misura lo potremo accettare? Le differenze sociali, di rango, castali, sono note perché incarnano la struttura portante delle comunità tradizionali, non contaminate dal morbo dell’egualitarismo.

Ma come opportunamente sottolinea Becchi, la distanza di cui si parla oggi è di altra natura: è tra corpi fisici. Che reca una separazione cancellata fin dallo stadio remoto, ancestrale dall’Uomo "politikòn zôon" (animale politico), alla quale non sarà facile adeguarsi perché, citando Walter Benjamin, richiamato da Becchi: "L’uomo non coincide in nessun modo con la nuda vita". La rappresentazione plastica di questo dramma inatteso l’ha offerta sorprendentemente proprio l’autorità morale che per statuto avrebbe dovuto pretendere il ritorno al primato dell’ecumene di corpi fisici rispetto alla confluenza artificiale delle individualità nel regno del virtuale. Quel rito del triduo pasquale, il Venerdì Santo, con un pontefice celebrante "senza concorso di popolo", è stato un segno di resa al nuovo ordine individuale. Cosa ci attende? Una riconversione comunitaria mediata dalla tecnologia che consenta interazioni da remoto? Per Paolo Becchi non sembrano esserci alternative: "Noi stiamo andando esattamente in questa direzione. Una società senza con-tatti o con contatti ridotti al minimo. Questa sì che sarebbe la vittoria del virus. Con-vivere in questo modo col virus significa ammettere la nostra sconfitta. Lui se ne andrà per conto suo seguendo le leggi della sua natura, ma avendo già modificato la nostra natura".

Abbiamo accettato come necessarie le misure restrittive delle nostre libertà personali perché era la cosa giusta da fare e perché avrebbero dovuto essere rigorosamente contingibili e temporanee. Adesso però occorre che la politica chiarisca, senza ambiguità semantiche, se la prospettiva sia quella di trasformare lo straordinario in ordinario. Perché se questo fosse l’intendimento della nostra classe dirigente si profilerebbe una mutazione estrema della vita collettiva dotata della potenza distruttiva di un cataclisma. Qui siamo oltre la disquisizione sulle libertà costituzionali conculcate, oltre la dinamica dei diritti e dei doveri. La lotta al virus interroga le ragioni stesse del vivere. Stavolta il "venerato maestro" Feltri ha preso una topica colossale: non vale la massima oraziana secondo cui "Primum vivere, deinde philosophari". Qui la partita la gioca il cartesiano "Cogito ergo sum". Detto alla maniera spicciola, occorre che ciascuno di noi rifletta su quale paradigma sociale riposizionarsi e comunicarlo tempestivamente a chi ci governa. Nulla è posto, nel senso dello Ius positum, che non venga scelto. E in democrazia, visto che ci siamo, il decisore di ultima istanza è il popolo.

Cristofaro Sola