E’ come se dalle nuvole di pioggia e tempesta, nelle quali era sprofondato il 14 agosto 2018, trascinando 43 vite innocenti, il ponte risorgesse 488 giorni dopo, esattamente 11512 ore esatte dopo. Ci sono le nuvole anche oggi ed ha appena smesso di piovere sulla Valpolcevera di Genova, quando, alle 12 in punto del 28 aprile 2020, il ponte c’è di nuovo, in tutta la sua lunghezza di 1067 metri, l’ultimo pezzo di 44 metri, pesante 800 tonnellate, saldato al resto.

Urlano in un concerto incredibile, e in parte anche imprevisto per le coincidenze tra il sacro e il profano, le sirene delle fabbriche e quelle delle navi in porto, in sintonia con le campane di tutta la città che battono il tocco. Urla la sirena del cantiere che ha fatto questo miracolo di costruzione e demolizione, nel tempo incredibile di meno di un anno, il primo cemento della base nell’aprile del 2019, e l’ultimo impalcato dei 18 incastrati per 17 mila tonnellate di acciaio, la demolizione totale il 28 giugno 2019, in quel botto pazzesco per quel che restava del ponte Morandi ferito a morte, ma ancora quasi tutto in piedi.

Urlano le sirene delle fabbriche rimaste in questa valle, ora finalmente non più separata, come guarita da una ferita sanguinante e sanguinosa, che temeva la separazione definitiva da un grande tessuto industriale e infrastrutturale collegato con tutto il Paese. Urlano dal porto, che è là dietro, a un chilometro di distanza, le sirene delle poche navi che ci sono, in questo terribile tempo della pandemia, urla anche quella della nave ospedale dove giacciono i malati dell’infezione terribile e quelle delle navi Costa e Msc bloccate in porto dal lockdown, in mezzo a banchine semi deserte di traffici e uomini.

E’ stato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a schiacciare il pulsante che ha messo in moto un concerto che Genova non aveva mai ascoltato, nel mezzo di una primavera indescrivibile, facendo scuotere l’anima della città, di ogni suo quartiere, fino dove l’urlo, che partiva da quel ponte nuovo, scintillante, appena congiunto, pezzo per pezzo, in un lavoro durato meno di un anno, ogni giorno, 24 ore dopo 24 ore, sette giorni su sette, solo la sosta di Natale e, infine, contro anche il lock down del Coronavirus, riusciva ad arrivare. E questo urlo, che è un po’ di dolore e un po’ di gioia, di liberazione, spinto dal vento di scirocco sibila su e giù per ogni angolo della città, dove il vento lo sospinge mentre quel pezzo di 44 metri si incastra perfettamente al resto lungo questo ponte "costruito dal vento e dall’acciaio", come ha detto il suo disegnatore, il suo architetto Renzo piano, commosso, dal suo ufficio lontano di Parigi.

E’ un urlo, ma è anche un sospiro misto di sollievo e di ricordo, di memoria che parte da questa strada, via Fillak, per mesi chiusa dal crollo di quel terribile agosto 2019, da dove la gente, 1700 abitanti, erano scappati da 8 palazzi evacuati in mezz’ora, nel timore che il viadotto, a soli 50 anni dalla sua mirabolante inaugurazione, crollasse tutto e li seppellisse in una catastrofe immane. Ora questa strada a lungo spezzata da una linea rossa, con metà case vuote e lasciate com’erano e le altre sbriciolate da gru gigantesche per far spazio al nuovo ponte, è un fiorire di impermeabili gialli che indossano le maestranze che hanno demolito e costruito, che indossano le autorità accorse per questo passaggio, che non è una festa, che non è una cerimonia, che non deve essere un assembramento, ma che consacra il miracolo della costruzione, diventata un simbolo, non solo per chi sta con il naso in su a guardare l’acciaio scintillante della chiglia larga trenta metri, alta 40 metri sul livello della strada, che Piano ha disegnato come la chiglia di una nave viaggiante da una sponda all’altra della vallata, che Impregilo Salini, Italferr, Fincantieri hanno costruito, che il Rina ha progettato e controllato.

E’ un simbolo per l’Italia che non sapeva fare presto nelle sue grandi opere, che si lasciava strangolare dalla burocrazia, dalla giustizia lenta, dai lacci e lacciuoli dei suoi tempi amministrativi, ma oggi è sopratutto il simbolo dell’Italia inginocchiata dalla grande pandemia, che vuole una luce per sperare, una prospettiva per ripartire, un modello per rinascere. Sarà questo il modello Genova, come molti scrivono e raccontano e si vantano e indicano, oggi tutti schierati con la mascherina sul volto e il casco da cantiere in testa? Sono arrivati il primo ministro Conte e la ministra delle Infrastrutture De Micheli, direttamente dall’inferno della Lombardia, la regione martire dell’epidemia assassina, per cercare quella luce e indicare quel modello. Conte era qua poche ore dopo il crollo, già da primo ministro, e torna per la quarta volta, dopo avere promesso più volte, quello che oggi si mantiene.

E’ emozionato, provato e urla anche lui che Genova non è mai stata abbandonata e che oggi si ricordano quei 43 morti "una ferita che non potrà mai essere suturata. "Questo ponte ha un significato pratico, simbolico e reale", dice dal piccolo palco allestito proprio sotto quel pezzo che lassù si sta saldando in un incastro perfetto, fatto di denti, di superfici lisce, di bulloni miracolosamente avvitati. Il premier ringrazia Piano, che ha disegnato il progetto "gratuitamente" e le imprese che hanno lavorato senza sosta, senza paura, con tanta perizia e diligenza e ricorda di avere posto limiti "sfidanti" per i tempi della ricostruzione.

"Da qui si irradia una nuova luce per l’Italia intera", dice il presidente, con ancora gli occhi nel buio dei morti che è appena andato a contare tra Bergamo e Brescia. "Ripartire – aggiunge – è un atto d’amore nel quale ciascuno sa quello che deve fare, i nemici sono solo una distrazione in questa battaglia". Il sindaco di Genova, Marco Bucci, uno degli artefici della ricostruzione, commissario straordinario, aveva lanciato la sua invocazione in genovese: "Pe’ zena e pe’ San Giorgio, (per Genova e per San Giorgio)", aveva urlato aprendo i brevi e emozionati discorsi di una mattinata certamente indimenticabile, alludendo alla bandiera della città e al suo simbolo più forte.

Il presidente Giovanni Toti aveva citato nientemeno che una frase di Einstein per ricordare che "non bisogna disturbare chi sta facendo". Ma il discorso più forte l’aveva fatto forse Piero Salini, il titolare di Salini Impregilo , uno dei più grandi costruttori italiani e mondiali, immaginando di stringere le mani di tutti i lavoratori del ponte, invitandoli a alzare queste mani, gli strumenti con i quali si è fatto il miracolo e addirittura dicendo a Conte: "Mi metto in ginocchio a chiederle un nuovo piano per far ripartire l’Italia da questo ponte, dal modo in cui l’abbiamo ricostruito, di farlo in questo paese oggi atterrito dalla pandemia e bisognoso di ripartire, i grandi cantieri sono il mezzo per far ripartire tutto". E la ministra De Micheli aveva rivendicato di avere lottato anche contro il Covid per non fermare il miracolo del ponte: "Abbiamo lavorato ai protocolli di sicurezza perché non si fermasse il lavoro incredibile che stavate facendo qua".

Ha smesso anche di piovere quando sono finiti i discorsi e quando le sirene hanno smesso di scuotere la città, il porto, azzittendo perfino le altre sirene, quelle delle ambulanze che continuano a ricordare, con il loro andarivieni, l’emergenza pandemia, nel loro incessante viavai dagli ospedali.

E IL PONTE FINALMENTE "RISARCITO"

Ponte collegato per intero da una parte all’altra della valle spezzata, sembra quasi luccicare di più nel suo acciaio pulito, con quella leggera curva, quei piloni, quegli spazi sottostanti, dove sarà costruito il Memoriale delle vittime. Ci vorranno ancora due mesi prima che il lavoro sia completato, ci vorrà la costruzione della soletta, poi l’asfaltatura, poi i collaudi, poi i collegamenti con la rete autostradale, mozzati 488 giorni fa. Ci hanno messo questo tempo a far rinascere il ponte, che costerà 201 milioni, a cui hanno lavorato e lavoreranno ancora 1000 persone di tutte le competenze, altri grandi sacrifici. Si sa che non si fermeranno, anche se oggi, al suono di quelle sirene e di quelle campane, il cuore di tutti un po’ si è fermato.

di FRANCO MANZITTI