Più di un archivio, più di una porta unica di accesso alle informazioni, ora in ordine sparso, sulle vicende che hanno portato alla morte di 30 uomini e donne che la passione per il giornalismo ha portato in prima linea: uno strumento al servizio della memoria collettiva. E’ questo il sito Cercavano la verità, realizzato da Ossigeno per l’Informazione e messo online lo scorso 3 maggio, Giornata Mondiale della Libertà di Stampa. Cercavano la verità presenta in modo unitario le storie di trenta giornalisti italiani uccisi dal 1960 ad oggi dalle mafie, dal terrorismo e dai conflitti all’estero. E al tempo stesso racconta una sola storia: quella di persone di provenienze e culture diverse, ma accumunate da una grande passione per la professione giornalistica e da un impegno civile per la ricerca della verità. "Tante storie, una sola storia: Cercavano la verità" è anche lo slogan con cui Ossigeno diffonde dal 2014 Il Pannello della memoria, che ne raccoglie tutti insieme i nomi e i volti. Ricordarli insieme significa farne conoscere le storie personali e al tempo stesso affermare il valore della professione giornalistica e della battaglia per affermare il diritto-dovere di informare, anche quando si affrontano rischi per far conoscere verità scomode. Il nuovo sito raccoglie le biografie dei giornalisti uccisi, gli sviluppi delle vicende giudiziarie volte a individuare i responsabili della loro morte, le testimonianze, le immagini, i riferimenti bibliografici, i siti, i documentari e gli articoli pubblicati su di loro, aggiungendo materiali inediti e proponendosi come un archivio in continuo aggiornamento. Un work in progress per fare di tutti loro, uccisi mentre lavoravano con coraggio in prima linea, una testimonianza vivente del giornalismo migliore. Nove giornalisti sono stati uccisi (otto in Sicilia e uno in Campania) mentre pubblicavano notizie inedite sulla mafia. Ognuno di loro sapeva bene che rischiava la vita mentre faceva inchieste, svelava retroscena di clamorosi delitti, denunciava collegamenti fra mafiosi, politici corrotti, imprenditori complici, e "pezzi" di Stato conniventi. Ognuno di loro sapeva di rischiare la vita e ha affrontato questo rischio a viso aperto, mosso da una cieca passione per la verità che lo a spinto a dominare la paura, a tapparsi le orecchie per non sentire i richiami alla prudenza delle persone più care. E’ molto interessante scoprire come sia potuto accadere, scorrendo le pagine del sitowww.giornalistiuccisi.it curato da Ossigeno per l’Informazione. Cosimo Cristina aveva 25 anni. Nel 1960 aveva scoperto che nella sua Termini Imerese la vecchia mafia stava cambiando pelle entrando nel mercato della droga. Continuava a raccontarlo nonostante le minacce. Anche Giovanni Spampinato aveva 25 anni quando svelò sulle pagine de L’Ora che la sua Ragusa, celebrata come la paradisiaca provincia "babba" (ovvero non mafiosa) era il terminale di intrecci politico-mafiosi con risvolti terroristici. La stessa giovane età aveva Giancarlo Siani che rivelò l’evoluzione mafiosa e affaristica di alcuni clan camorristici dell’area vesuviana e il retroscena di un patto stretto fra i clan Nuvoletta e Bardellino. Peppino Impastato, che aveva 30 anni e divenne giornalista dopo morto, aveva la mafia in famiglia e svillaneggiava via radio un grande boss che abitava a "cento passi" da casa sua. Gli altri non erano così giovani. Erano uomini fatti. Come Mauro Rostagno, 46 anni, che era stato leader del movimento studentesco a Trento e uno dei fondatori di Lotta Continua e poi del circolo culturale "Macondo", e aveva scoperto il giornalismo dietro alle telecamere di una tv locale nei pressi di Valderice (Trapani). Come Beppe Alfano, 48 anni, un insegnante con la passione del giornalismo che accese le luci sugli scandali politico-mafiosi della sua Barcellona Pozzo di Gotto. Alcuni di questi nove erano giornalisti affermati, di lunga esperienza. Come Mauro De Mauro, 49 anni, una firma brillante del giornale L’Ora. Come Mario Francese, 53 anni, cronista di punta del Giornale di Sicilia, fra i primi a segnalare lo sbarco dei "corleonesi" di Totò Riina a Palermo. Come Pippo Fava, 63 anni, che aveva una lunga carriera, era direttore e fondatore del suo giornale e aveva messo a frutto la sua esperienza di scrittore e drammaturgo per sbattere in faccia ai suoi lettori la faccia mafiosa di Catania. Otto sono stati uccisi in Sicilia fra il 1960 e il 1993. In nessun paese europeo si è registrata una ecatombe come questa.