Trentuno anni fa, il 4 giugno i carri armati dell’esercito popolare di liberazione spensero nel sangue la voglia di libertà e democrazia dei giovani di Pechino. Molti dei giovanissimi leader di allora furono arrestati e qualcuno riuscì a salvarsi raggiungendo l’isola di Taiwan e la città stato di Hong Kong, allora governata dalle leggi della democrazia britannica. Nei giorni successivi al massacro di Piazza Tienanmen, su iniziativa dei governi e delle intelligence di diversi paesi occidentali, nacque l’"Operazione YellowBird", che permise ad oltre 400 studenti e dissidenti di lasciare clandestinamente la Cina. Solo grazie a quella iniziativa è oggi possibile incontrare i giovani di Tienanmen in un caffè di Taipei o di Kowloon, e per i cinquantenni Wang Dan, Wu’er Kaixi, Liu Gang, Zhou Fengshuo e Han DongFang, il 4 giugno non è una data qualunque.

Come non lo è per la città libera di Hong Kong. E per capirlo basta fare due passi fino a Mong Kok Road, una delle arterie centrali di Hong Kong, dove il "Museo del 4 giugno" è diventato un "memorial" che rende impossibile dimenticare i fatti di trent’anni fa. Quest’anno Carrie Lam, il contestato capo dell’esecutivo di Hong Kong, ha vietato ogni manifestazione per "motivi sanitari e di rispetto delle regole di distanziamento sociale", ma come ci ricorda al telefono James To, deputato del blocco democratico al Consiglio Legislativo di Hong Kong, "i cittadini di Hong Kong saranno in piazza a migliaia con le loro candele a Victoria Park per commemorare ancora una volta in morti di Tienanmen". Sempre il 4 giugno a Hong Kong potrebbe svolgersi l’ennesimo capitolo della nuova stagione inaugurata da Xi-Jimping per rimettere ordine nella città ribelle: il Consiglio Legislativo (il parlamento locale di 72 membri ndr.) voterà la legge che prevede 6.500 dollari di multa e fino a 3 anni di carcere per chiunque "attenti alla solennità dell’inno nazionale cinese".

Il progetto legislativo aggiunge ulteriore tensione dopo l’approvazione della Legge sulla Sicurezza Nazionale che ha rappresentato sostanzialmente la fine del modello "Un paese, due sistemi" alla base degli accordi sino-britannici del 1997 e fondamento della "Basic Law", la mini-costituzione della città stato che aveva garantito fin qui stato di diritto, multipartitismo, stampa libera e magistratura indipendente. La legge approvata a Pechino, per la prima volta bypassando il parlamento locale, vieta "atti sediziosi e interferenze straniere a Hong Kong" e nel nome della "sicurezza nazionale" afferma il controllo definitivo del Partito Comunista Cinese sulla città di Hong Kong. A fronte di una posizione ancora incerta e troppo debole dell’Unione Europea, che, per bocca dell’Alto Rappresentante della Politica Estera Joseph Borrell, si è limitata a denunciare il provvedimento, escludendo però ogni forma di "sanzioni" e di provvedimento più assertivi, i Ministri degli Esteri di Stati Uniti (Mike Pompeo), Gran Bretagna (Dominic Raab), Australia (Marose Payne) e Canada (Francois Philippe Champagne) hanno fatto sentire forte e chiara la voce dell’occidente ricordando come "la legge sulla sicurezza nazionale sia in aperto conflitto con gli obblighi internazionali previsti dalla Dichiarazione sino-britannica del 1997" e che l’occidente non abbandonerà Hong Kong, "baluardo della libertà" in Asia.

Londra e Taiwan si sono spinte oltre, dichiarando la disponibilità ad aprire le porte a centinaia di migliaia di residenti di Hong Kong in caso il conflitto degenerasse. Il Presidente Usa Donald Trump ha annunciato "sanzioni contro i responsabili del Partito Comunista Cinese" sull’isola, dando il via anche all’abolizione dello status speciale riconosciuto ad Hong Kong, in quanto nei fatti non più autonoma dalla Repubblica Popolare Cinese. La scelta dell’amministrazione statunitense, che fa seguito all’approvazione unanime al Congresso lo scorso novembre del "Hong Kong Human Rights and Democracy Act", rappresenta la definitiva "internazionalizzazione" della crisi di Hong Kong e l’affermazione di come sia illusorio pensare che si possa continuare a separare la libertà dei commerci dalla libertà degli individui.

La Repubblica Popolare Cinese ha dunque di fronte a sé una chiara sfida per i prossimi anni: diventare un attore serio, responsabile e protagonista di una comunità internazionale sempre più interdipendente, accettando però che lungo la "Nuova Via della Seta", possano e debbano correre non solo "merci", ma anche "diritti". In questo contesto, colpisce il silenzio del Governo italiano e soprattutto il suo allontanarsi dalla solidarietà occidentale sul tema. Lo scorso novembre il Ministro degli Esteri Luigi di Maio dichiarò sulla vicenda di Hong Kong di "non volere interferire nelle questioni di un paese sovrano…. in nome della non ingerenza" e oggi la stessa posizione è ripresa dal presidente grillino della Commissione Affari Esteri del Senato Vito Petrocelli che ha sostanzialmente affermato che la Cina può fare ciò che le pare, per far rispettare l’ordine e la sicurezza a casa propria.

La "non ingerenza" italiana sul rispetto dei diritti fondamentali è una preoccupante novità che allontana il paese dalle nostre alleanze storiche in Europa ed oltreoceano e anche da una parte della sua storia recente: l’Italia che promuoveva alle Nazioni Unite la campagna per l’abolizione della pena di morte, affermava il diritto all’ingerenza democratica e ricordava come i diritti possono avere la meglio sulla tutela assoluta della sovranità degli stati. Un mondo sempre più interdipendente è per sua natura fatto di molteplici "ingerenze" fra i tanti attori della comunità internazionale, che accettano, tanto negli accordi economici e commerciali, quanto nel rispetto della legalità internazionale e dei diritti umani, "limitazioni" e "regole sovranazionali". E nel confronto sempre più aperto e a tutto campo fra "Democrazie" e "Autocrazie", l’Italia rischia, un’altra volta, di trovarsi dalla parte sbagliata della storia.

Gianni Vernetti