È inutile girarci intorno: il fatto di dover rinunciare, questa estate, ai turisti americani col portafoglio pieno, pesa. Pesa agli albergatori come a tutto il settore del turismo, già in affanno per le arcinote cause. Ma è altrettanto inutile nascondersi dietro l’evidenza: dopo tutti i sacrifici fatti, con le terapie intensive vuote in 12 Regioni italiane, riaprire in questo momento a un’America fuori controllo pandemico sarebbe stato folle. Lo dice il buon senso, ma lo dicono soprattutto i numeri: 46mila nuovi contagi nelle ultime 24 ore, un nuovo record che porta i casi totali a 2,69 milioni. L’America oggi non è solo il Paese più colpito al mondo, ma anche quello – insieme al Brasile – che rischia di perdere definitivamente il controllo della pandemia: nelle ultime ore l’epidemiologo Anthony Fauci ha dichiarato che, se gli americani non inizieranno a seguire le direttive sulla salute pubblica, i casi di coronavirus negli Stati Uniti potranno arrivare a 100mila al giorno.

Il segretario alla Salute Alex Azar ha avvertito che nel Paese "si sta chiudendo la finestra" temporale sulla possibilità di fermare efficacemente il contagio. Dovrebbe bastare questo per fermare qualsiasi polemica sulla decisione europea, supportata dall’Italia, di non inserire gli Usa nella lista dei 15 Paesi extra-europei che da oggi possono viaggiare da e per l’Europa. Eppure le polemiche ci sono, alimentate da quei settori economici che non si danno pace all’idea di dover fare a meno dei ricchi turisti americani e russi, gli altri grandi esclusi dell’elenco Ue. Così il Sole  24Ore mette oggi in primo piano la "spallata all’industria turistica italiana, che in un solo colpo rischia di perdere i suoi migliori ospiti". Che fino ad oggi siano stati "i migliori" lo indicano i numeri (ancora loro!): secondo Bankitalia, nel 2019 i soli clienti americani sono stati 4,4 milioni e hanno speso 5,5 miliardi di euro, registrando quasi 40 milioni di pernottamenti. E si capisce la preoccupazione di Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi, che in un’intervista a Repubblica lancia il suo grido d’allarme: "Senza americani, il turismo non ha ossigeno, noi spediamo di meno".

Di certo non aiutano le minacce di Trump, pronto a (ri) sfoderare la sua arma preferita: i dazi. Washington ha appena pubblicato la lista definitiva dei prodotti e dei Paesi Ue sotto esame per nuovi dazi: per l’Italia, secondo un’analisi di Coldiretti, il potenziale impatto è di 3 miliardi di euro, pari ai due terzi del valore dell’export agroalimentare, e si estende tra l’altro a vino, olio e pasta Made in Italy, oltre ai formaggi e salumi che sono già stati colpiti. Tra turismo e nuove tariffe, le preoccupazioni di interi settori economici sono più che comprensibili. Ma la drammaticità dei dati americani, unita a ciò che sappiamo sulla velocità con cui può riaccendersi il contagio, dovrebbero bastare a togliere di mezzo ogni dubbio e ogni polemica. Dopo tutti i sacrifici fatti, e gli sforzi in corso per identificare e isolare i nuovi focolai, anche solo immaginare di riaprire indistintamente le frontiere ai pur ricchi turisti americani è pura follia. Il rischio, infatti, è di far ripartire l’infezione ancor prima di quanto gli esperti ci dicono che potrebbe comunque succedere, ossia in autunno.

Salvo poi potercela prendere sempre con qualcuno: per non aver segnalato polmoniti sospette, per non aver indetto zone rosse per tempo, per non aver protetto abbastanza la nostra salute o, viceversa, per non aver avuto abbastanza a cuore i nostri interessi economici. Pare superfluo (ma forse non lo è) ribadire le possibili conseguenze di una risalita delle infezioni oltre la soglia di allerta: nuove zone rosse, altri lockdown, perdite economiche incalcolabili, filiere produttive di nuovo al palo. E questo fermandoci al piano economico, perché su quello sanitario non dovrebbe esserci molto di cui discutere: nuovi morti, altri lutti, soprattutto in quella fascia di popolazione che ora diciamo di voler proteggere. Anche se da noi il peggio è passato, forse è bene ricordare che attualmente la SARSCoV-2 resta una malattia contro cui non abbiamo né vaccino né cura.

È notizia di oggi che gli Stati Uniti hanno acquistato praticamente tutte le scorte per i prossimi tre mesi di Remdesivir, uno dei due farmaci considerati (forse) più efficaci. Secondo il Guardian, all’Europa, al Regno Unito e al resto del mondo non sarebbe rimasto più nulla. Non c’è da sorprendersi, del resto, visto che uno dei pilastri dell’era Trump è sempre stato "America First". Ma qui non si tratta né di sovranismo né di autolesionismo economico. Qui c’è in ballo la salute, un po’ di prudenza la storia recente dovrebbe avercela insegnata.

GIULIA BELARDELLI