Erano le 16,38 del 16 luglio 1950 quando il cielo crollò su Rio de Janeiro. Quel giorno nella metropoli brasiliana si chiudeva il primo campionato del mondo di calcio dopo la guerra mondiale. Ai verde-oro, padroni di casa e dominatori del torneo, bastava un pareggio con i vicini calciatori dell’Uruguay. Prima di entrare nel mitico Maracanã, stracolmo di ben 173.850 spettatori, il capitano della celeste Obdulio Varela gridò ai suoi: "Non guardate gli spalti! Quelli là fuori non esistono". Il boato che accompagnò l’ingresso dell’arbitro inglese, il maestro elementare George Reader, e le due compagini sfidanti non pareva confermare le ipotesi di Varela, ma i calciatori di Montevideo fecero il possibile per non alzare gli occhi. E lottarono con passione e orgoglio tanto che nel primo tempo, pur schierato con l'offensivo "WM", il Brasile non andò a segno.

Al rientro in campo il portiere brasiliano Moacir Barbosa piazzò il suo portafortuna, una bambolina, dentro la porta. E pensò che la sorte girasse dalla loro parte perché dopo appena settantotto secondi, Ademir, servito da Zizinho, crossò per Friaça, che batté con un tiro in diagonale il portiere uruguaiano Máspoli, portando in vantaggio la Seleção. Gli uruguaiani non si diedero per vinti e al ventunesimo Varela passò la palla a Ghiggia sulla destra, il quale a sua volta lanciò Schiaffino che fulminò con un gran tiro il povero Moacir Barbosa. Al minuto 34 del secondo tempo avvenne l’irreparabile per la più grande nazione latino-americana opposta al "paesito". In una fase d’attacco si trovarono smarcati in area Miguez e Schiaffino e Barbosa fece un passo verso di loro lasciando la porta sguarnita. Ghiggia se ne accorse e con la palla al piede, invece di servire i due connazionali, tirò verso la porta.

Barbosa si tuffò alla sua sinistra, gettandosi all’indietro, e toccò la palla con la punta delle dita. Ma quando vide il sorridente Ghiggia attraversare lo specchio della porta con aria festante capì che il suo gesto non era bastato. Lo stadio ammutolì. Nei concitati minuti finale il Brasile si gettò avanti all’impazzata, ma l’Uruguay resistette sino alla fine. E così il presidente della Fifa Jules Rimet consegnò la coppa a Obdulio Varena senza un minimo sorriso sulle labbra. E dire che la Federcalcio brasiliana, già alla vigilia della gara contro l'Uruguay, aveva regalato un orologio d'oro a ciascun giocatore della nazionale con incisa la dedica "Ai campioni del mondo". Nel dopo partita Ghiggia fu picchiato, tornò a Montevideo con le stampelle e divenne un eroe nazionale. In Brasile cadde un lutto che la storia non ha mai cancellato, ci furono persino 34 suicidi e 56 uomini adulti furono colti da attacco cardiaco. E Barbosa fu macchiato da una fama che si trascinò sino alla morte.

Anche se un giorno, per scaramanzia, nella sua casa nel barrio di Leopoldina bruciò i legni della porta in cui aveva subito il secondo gol che gli vennero regalati dall’amministrazione dello stadio. Quando andò in vista alla nazionale brasiliana nel 1993 non lo fecero entrare nel ritiro. Chi lo riconosceva diceva ai ragazzi: "Vedete quel signore? Ha fatto piangere tutto il Brasile". Al contrario a Montevideo si svolse una festa indimenticabile. I due principali eroi del Maracanazo, in quanto oriundi italiani, presero pian piano la strada della serie A. Schiaffino era di origine ligure, esattamente di Camogli, Ghiggia ticinese, suo padre era nato a Sonvico. Alcides Ghiggia, classe 1926, scomparso il 16 luglio 2015, appese le scarpe al chiodo, faceva il crupier al vecchio Hotel Casino Carrasco, una delle icone della Rambla di Carrasco, la zona più elegante della capitale uruguayana. Ma più che far girare la pallina sulla ruota della fortuna, lui aveva il compito di vigilare sugli scommettitori, insomma di marcarli a vista, come faceva in campo. In realtà veniva esposto come una statua della Madonna, abito scuro e guanti bianchi, il baffetto arguto e il sorriso ampio.

Dal gioco del pallone al gioco della roulette c’era una grande distanza e lui lo sapeva. Ma Alcides Edgardo Ghiggia, aveva tante cose da raccontare, essendo uno dei pochi superstiti del famoso Maracanazo. Ad esempio confessò che quel tiro aveva subito involontariamente una stramba traiettoria e che Barbosa si era buttato bene, ma ciò con bastò a mutare il destino del portiere. Quando Moacir Barbosa decise di andare a parare dall’altra parte del cielo, era il 7 aprile 2000, Alcides accese la televisione e si piazzò tutto il giorno davanti al piccolo schermo, gli occhi vitrei, viso rugoso, senza più i suoi rinomati sottili favoriti. Quella era la seconda morte di Barbosa, la prima l’aveva provocata proprio lui. E gli costava un certo peso da portare sulle spalle il funerale di un uomo famoso, per giunta un uomo dalla pelle nera, per giunta di professione portiere, "deceduto" il 16 luglio 1950, trafitto al cuore da una palla rasoterra calciata proprio da lui al Maracanã.

"In Brasile – confessò Barbosa prima di andarsene – il massimo della pena è 30 anni di carcere. Io ho pagato molto di più, tutta la vita per un crimine che non ho commesso". Al funerale di Barbosa non si presentò nessun dirigente federale né di società calcistiche, qualche suo compagno di avventure pedatorie si tenne fuori dalla chiesa e lontano dalla tomba. Dicevano che portasse male e quando passava per strada tutti si toccavano i santissimi. Lui no, Alcides Edgardo Ghiggia avrebbe voluto scrivergli una lunga lettere, ma non lo fece mai. Sì, la elaborò mentalmente, ma poi non la buttò mai giù né la invio per posta. Se Ghiggia andava in Brasile o semplicemente prendeva una coincidenza aerea, cercava di farlo in incognito, ma all’aeroporto trovava sempre un poliziotto che urlava il suo nome e tutti lo guardavano con il disprezzo che si deve ad un assassino, il giustiziere di un intero popolo di oltre duecento milioni di anime. L’ultima volta che è andato in Brasile i giornali hanno titolato: "È tornato il fantasma del Maracanã". Una hostess che lesse il nome sul passaporto lo apostrofò: "Ancora lei?". Risentito, Ghiggia replicò: "Ma è stato tanto tempo fa!". La hostess lo fissò e ripose: "E come si fa a dimenticare!".

Ghiggia ha scelto il giorno esatto per andarsene per sempre, il 16 luglio 2015, anniversario del Maracanazo, più o meno alla stessa ora in cui, sessantacinque anni prima, milioni di brasiliani piangevano. Stava parlando di calcio con suo figlio Arcadio, – così chiamato in onore del suo capitano della Roma, Arcadio Venturi, - quando ha sentito un dolore alla schiena, ha smesso di parlare e ha chiuso gli occhi stroncato da un attacco cardiaco. La sua ultima parola è stata "Fútbol". Abitava in una umile e linda casetta di Las Piedras, nel dipartimento di Canelones, venti minuti dal centro di Montevideo. La terza moglie Beatriz, di 35 anni più giovane, era stata la sua prima e unica allieva da istruttore di scuola guida, uno dei tanti mestieri – da direttore di un supermercato a impiegato - che si era inventato per sopravvivere alla sua dissolutezza economica che lo aveva portato persino a vendere tutti i suoi trofei.

"Venni in Italia – raccontava - sapendo di tornare nella terra nei miei avi. Sono stati dieci anni splendidi, nove alla Roma e uno al Milan. Quando ebbero bisogno di me e Schiaffino ci convocarono in Nazionale. Ma le cose non andarono bene, perdemmo a Belfast e mancammo la qualificazione ai Mondiali del ’58. Peccato. Se fossimo andati in Svezia il Brasile non avrebbe vinto quell’edizione perché i brasiliani mi temevano, mi vedevano e gli tremavano le gambe! Io e Schiaffino abbiamo giocato insieme anche a Roma ed abbiamo fatto sfracelli vincendo la Coppa delle Fiere nel 1961. A noi i brasiliani ci facevano un baffo!". Con la celeste il baffetto giocò solo 12 partite ma segnò 4 reti, una in ogni partita del Mondiale, record eguagliato solo da Jairzinho col Brasile ’70. Era arrivato nella capitale italiana nel 1953 a causa di una squalifica di otto mesi rimediata nel Peñarol per aver picchiato un guardalinee che gli aveva negato un gol nel derby con Nacional. Mesi di sospensione che avrebbero potuto bloccare per sempre la sua folgorante carriera. Uno stallo di cui approfittò il direttore generale della Roma Vincenzo Biancone che lo convinse a venire in Italia per poter proseguire l’attività.

Quando l’acquisto venne annunciato a una assemblea dei soci giallorossi al Teatro Sistina, il presidente romanista Renato Sacerdoti gridò: "Uno dei più grandi giocatori del mondo vestirà la maglia della Roma e si chiama Alcide come il nostro presidente del Consiglio!". Focosi rappresentanti della sinistra replicarono urlando: "Palmiro! Palmiro!". Nacque un tafferuglio bloccato a fatica ma poi l’applauso fu univoco. Il 3 giugno, quando sbarcò all’aeroporto, due ali di folla lo accompagnò sino all’auto su cui salì. Il giorno dopo esordì in una amichevole contro il Charlton in uno stadio gremitissimo. Giocava con la fotografia della madre dentro i calzettoni, recitava poesie in spagnolo, si faceva lucidare le scarpette, divenne amico di Carletto Mazzone, che andava a prendere ogni giorno in macchina e poi in campo scorrazzava libero sulla fascia, come un cavallo senza briglia, inventava dei dribbling che i ragazzi non riuscivano a copiare, crossava perfettamente sulla testa degli attaccanti. Segnando un gol, gridava: "Gregoria, Gregoria!" rievocando la madre. Con lui gli abbonamenti nei settori laterali aumentarono perché tutti volevano vedere da vicino il doppio passo, la finta e l’addio.

Juan Alberto Schiaffino detto Pepe diresse l’orchestra uruguayana al Maracanazo e fu subito gloria. Suo nonno Alberto faceva il macellaio ed emigrò da Camogli verso La Merica agli inizi del Novecento dove ovviamente aprì una macelleria. Suo padre Raúl Gilberto era un impiegato dell’Ippodromo di Maroñas, sua madre era una casalinga di origine paraguayana. Destino volle che Pepe nascesse a Barrio Sur, a pochi edifici di distanza dalla vecchia sede del Peñarol, società che lo lanciò nell’olimpo del calcio e dove giocò anche suo fratello Raúl, capocannoniere della Primera División nella stagione 1945. Pepe aveva ereditato il nome e i cromosomi dell’abuelo: ligure nel sangue, introverso e burbero, taccagno e spilorcio. Così costruì un impero immobiliare nella sua Montevideo, una volta finiti i fasti italiani. Sulla sua tirchieria girano ancora adesso centinaia di aneddoti. Una volta, proprio a Genova, passeggiando per via XX Settembre, Liedholm propose di entrare in un bar per un caffè. "Paga la società, vero?" chiese Schiaffino. "No, questo è fuori dal conto spese" rispose lo svedese. "Allora io non lo prendo, il caffè mi rende nervoso" concluse l’oriundo.

Schiaffino fu il primo procuratore nella storia del pallone: solo che era procuratore di sé stesso. Parlava con il suo doppio e concordava di comprare questo appartamento o quel negozio. Fu acquistato dal Milan per soli 52 milioni di lire equivalenti oggi a meno di un milione di euro. Di stipendio concordò 15 milioni di lire l’anno, circa200 mila euro di adesso. Li mise a frutto. Fu delegato dai compagni a trattare i premi con i dirigenti e ottenne ottimi risultati per tutti, riserve comprese. Unico difetto il suo stile nel vestire, un po’ retrò, da sudamericano in vacanza invernale, capelli impomatati e divisi da una riga, tipo Rodolfo Valentino. Era anche testardo e cocciuto e questo gli valse tante liti con l’allenatore Gipo Viani che finiva per divorare le mille sigarette che di solito fumava. Aveva cominciato nell’Olimpia, poi era entrato nelle giovanili del Peñarol esordendo in prima squadra a 18 anni. Allora il calcio non era ancora professionistico e Pepe divideva la sua esistenza tra calcio e lavoro. Fece il fornaio, il commesso di cartoleria, l’operaio in una fabbrica di alluminio.

La doppia vita durò poco. Convocato per la Coppa Rimet in Brasile nel 1950 se la portò a casa. Poi nel 1954, durante il ritiro in Svizzera della nazionale uruguayana per i Mondiali, cedette alle pressioni di un dirigente rosso-nero che si chiamava Mimmo Carraro. In quel torneo disputò la sua più bella partita, anche se sconfitto, in semifinale contro l’Ungheria, un incontro rimasto nella storia. Aveva quasi 30 anni e molti lo davano per spacciato: invece giocò sei stagioni nel Milan, conquistò tre scudetti ma perse la finale della Coppa Campioni del ’58 contro il Real Madrid di Di Stefano. Fece anche due stagioni alla Roma nel ruolo di libero vincendo la Coppa delle Fiere del ‘61. "Libero scientifico" lo definiva l’allenatore Luis Carniglia. Pepe si divertiva in quel ruolo lanciando i suoi amici Ghiggia, Lojacono e Manfredini. Schiaffino giocò quattro partite nella nazionale italiana. Fu la principale delusione della sua attività calcistica.

Con Schiaffino in campo l’Italia mancò la qualificazione ai Mondiali del ’58 perdendo contro l’Irlanda del Nord. Il suo esordio, non privo di polemiche, fu contro il suo nemico storico, l’Argentina. Sull’amore per la maglia azzurra molti ebbero da ridire, tant’è che appena poté tornò nell’amata Montevideo. Lasciò la maglia numero dieci o lo scettro milanista a Gianni Rivera. Schiaffino fu considerato un Michelangelo del pallone con giocate millimetriche, geometriche e trasversali che strappavano applausi anche nelle altre tifoserie. Morì in una casa di riposo dopo che era rimasto vedovo della moglie Angelica che gli era stata sempre a fianco, persino nei ritiri. Palacio Peñarol ospita adesso l’Istituto Juan Alberto Schiaffino dedicato allo studio dello sport perché in fondo lui era un’istituzione.

MARCO FERRARI