In queste ore in cui dal punto di vista sanitario sembra il peggio sia passato, si lavora in tanti laboratori per rintracciare un vaccino capace di debellare il virus. Non meno prezioso e non meno alacre è il lavoro politico per giungere a un accordo su un piano straordinario di ripresa economica per il continente. A dispetto dei cantori della sua fine o dei suoi bistrattatori di professione l’Europa resta la grande protagonista. Lo è stata dinanzi allo scoppiare della pandemia quando, dopo pochi indugi, gli acquisti illimitati della Banca Centrale, la sospensione del patto di stabilità, l’impiego flessibile dei fondi europei, la predisposizione di un fondo per la cassa integrazione europea e di una linea di credito sanitaria furono approntati rapidamente, pure con limiti e insufficienze. Le ore più delicate e difficili tuttavia saranno quelle dei giorni prossimi, quelli che antecedono al Consiglio europeo del 17 e 18 luglio e che deciderà della proposta della Commissione sul programma Next Generation Eu collegato al prossimo budget comunitario da circa 1.100 per il sestennio 2021-2027.

Si tratterà del primo vertice "in presenza" dopo i lunghi mesi del lockdown e delle riunioni in streaming e che non è detto sia davvero risolutivo. In questa chiave mi siano consentite quattro considerazioni che delineo sinteticamente. La prima riguarda la natura dei soggetti in capo a cui è rimessa ora la decisione. Mai come in questo frangente drammatico le istituzioni sovranazionali europee hanno mostrato senso della realtà e lungimiranza. Bce, Parlamento, Commissione hanno approntato strumenti e proposte. Ora è la mediazione tra gli stati a venire in gioco e, ancora una volta, dovremo lottare a denti serrati perché non prevalgano irresponsabilità o tiepidezze rigoriste da parte degli stati del nord, per lo più a guida sovranista.

Non l’Europa matrigna dunque ma il rischio di Stati egoisti e pavidi. La seconda riguarda i nodi della proposta in discussione. Essi riguardano l’entità dell’intervento, partendo dalla proposta di 750 miliardi, di cui 433 miliardi in sussidi, 67 in garanzie e 250 in prestiti; le tipologie di finanziamento; la distribuzione per Stati; i tempi di erogazione (dal 2012 al 2027); il tipo di copertura (nuove tasse o emissione di bond comuni) e infine le modalità e la tempistica dei rimborsi. Su questi snodi la posizione del governo italiano e della maggioranza che lo sostiene è chiara: si approvi subito il QFP e il Next Generation Eu, si confermi il contenuto economico della proposta della Commissione o comunque non inferiore ai 500mld, si mantenga la prevalenza delle sovvenzioni sui prestiti, si dia disponibilità di queste risorse quanto più immediata anche con una soluzione ponte sulla fruibilità del bilancio, si rispetti nella ripartizione le priorità dei Paesi più colpiti, si consolidi la procedura dei buoni immessi sul mercato e si faccia un salto di qualità sulle risorse proprie dell’Unione. La terza riguarda la leadership politica europea. Le decisioni difficili richiedono il massimo della leadership, in termini di potere e in termini di responsabilità. Per questo, per uno strano paradosso, posso dire sia davvero una fortuna che il semestre più difficile della storia europea, nel mezzo di un calo congiunturale del Pil dell’Eurozona fino all’11,5%, veda alla guida del Consiglio europeo Angela Merkel.

Negli anni tanti sono stati i motivi di disaccordo o di divisione dalla cancelliera tedesca come paese e anche personalmente posso affermarlo come uomo politico impegnato per una vita nelle istituzioni europee. Ma la sua autorevolezza, il suo sperimentato realismo diplomatico, la sua capacità di mettere in discussione paradigmi apparentemente inscalfibili e aprire, anzi farsi promotrice, congiuntamente all’altra protagonista tedesca, la signora Von der Leyen, della sospensione del patto di stabilità e di un piano straordinario di ricostruzione collegato al bilancio dell’Unione, rendono Angela Merkel una leader responsabile e pare anche consapevole che non esiste una grande Germania senza un’Europa solida e soprattutto che in gioco stavolta non c’è tanto la contrapposizione tra frugali e cicale e forse neanche tra sovranisti ed europeisti ma la sopravvivenza stessa dell’Europa e dei modelli di democrazia liberale che ne sono sostanza fondatrice.

Non so se sia davvero fondato il titolo "Riuscirà a salvare l’Europa?" con cui si chiede di lei il Financial Times, ma certo la sua guida in questa fase sarà determinante. Su questo punto non possono che giudicarsi positivamente gli sforzi diplomatici del Presidente Conte e del governo nel costruire un asse politico con i paesi del sud Europa e di non limitarlo a questo fronte ma anzi aprirlo all’interlocuzione dei paesi dei Balcani, di alcuni paesi dell’est Europa e soprattutto di condividerne i capisaldi con la Francia in chiave alleata e con la Germania in chiave di mediazione politica. Senza questi sforzi dell’Italia, senza questo rigore nei principi e flessibilità nelle soluzioni, difficilmente la Commissione europea e i principali paesi sarebbero addivenuti all’attuale proposta di Ricovery Fund e i confronti di questi giorni in Spagna, in Portogallo, in Germania e persino in Olanda sono fatti politici positivi e potenzialmente assai utili ad ammorbidire posizioni contrarie o a blindare la linea degli alleati. La quarta considerazione la racchiuderei nel monito di Laocoonte ai Troiani: ‘timeo Danaos et dona ferentes’, temo i greci anche quando portano doni. Il mio riferimento concreto è ad alcune proposte di mediazione che già aleggiano sulla trattativa e che, a mio avviso, sono nettamente da respingere.

Penso a due tesi in particolare, quella del Presidente del Consiglio europeo, il liberale belga Charles Michel e a quella dell’olandese Rutte. Il primo conferma positivamente l’entità di 750 miliardi proposti dalla commissione e ne conferma la proporzione tra trasferimenti a fondo perduto e prestiti. Attribuisce tuttavia al consiglio, quindi agli stati membri (e non più alla commissione) il potere di approvare i piani nazionali di riforma con una maggioranza qualificata. Michel in sintesi prova a ribilanciare la ‘governance’ del meccanismo di sostegno ai Paesi membri così come chiedono i Paesi cd. frugali. Il maggior peso degli Stati, rappresentati nel Consiglio, nella valutazione dei piani dovrà infatti, secondo questa proposta, tenere conto anche di quanto le strategie nazionali si occupino del "rafforzamento della crescita potenziale, la creazione di posti di lavoro, la resilienza economica e sociale del Paese", una sorta di "prerequisiti" per una valutazione positiva dei piani che potrebbero preludere a meccanismi di prevalutazione del debito e delle politiche economiche degli stati, secondo principi rigoristi non lontani da velati commissariamenti.

Completa la proposta Michel la riduzione del MFF di circa 20/30 miliardi, cioè una dotazione per il bilancio Ue 2021-2027 di 26 miliardi inferiore a quanto proposto da von der Leyen (a 1.074 miliardi), in una via di mezzo tra quanto proposto dalla Commissione e auspicato dai Paesi più rigidi sul bilancio, e una certa quale vaghezza sulle risorse proprie. Se questa diventa la posizione di partenza per il Consiglio di luglio, il grosso rischio è che il punto di chiusura sia seriamente al ribasso (su importo e natura del recovery) per ottenere un accordo celere. Insomma il tempo rischia di diventare un elemento di ricatto. Il controcanto fintamente disponibile del premier olandese Mark Rutte addirittura sostiene che "si può andare anche dopo l’estate", "perché il fondo dovrà essere utilizzato in cambio di riforme". Un tentativo di troika mascherata inaccettabile.

In conclusione, i negoziati entrano nella loro fase più difficile e le forze progressiste lavorano a un’Europa verde, solidale, giusta e prospera. Un’Europa così non può che essere un’Europa sovrana, cioè un continente che ha un’identità politica, una missione nel mondo e che nei momenti di difficoltà trova ragioni di lungimiranza e unità nei valori, lasciando da parte egoismi delle piccole patrie e modeste rivalità nazionali.

di GIANNI PITTELLA