Non è saggio, ragionevole e razionale dare il nostro assenso a una riforma costituzionale la cui coerenza con i principi della democrazia rappresentativa è condizionata ad una legge ordinaria che, per giunta, ancora non c’è e forse non riuscirà ad esserci. Questo è esattamente il caso assurdo che sta dietro alla questione che i cittadini sono chiamati a risolvere per via referendaria il 20 e 21 settembre prossimo sul taglio del 36,5% del numero dei parlamentari.

Questa riforma della Costituzione sarebbe sbagliata anche qualora il PD riuscisse a portare a casa una riforma in senso proporzionale del sistema elettorale. Lo sarebbe perchè si tratta comunque di una norma costituzionale la cui bontà o funzionalità è e resta condizionata ad una norma ordinaria. A meno che la legge elettorale non sia essa stessa parte del dettato costituzionale, questa riforma è un aborto. Lo sarebbe anche qualora fosse corredata da una legge elettorale che si prefiggesse di rendere un Parlamento di 600 meno esposto alla logica del maggioritarismo, meno ingiusto verso i partiti piccoli o non grandi, meno iniquo nei confronti dei cittadini che votano in regioni piccole, meno deprimente del nostro potere del diritto di voto. Si tratta di una riforma in tutto scellerata.

E la radice di questa scelleratezza sta nella sua gestazione: è figlia di una logica aberrante, quella che crede (che vuol far credere) che rimpicciolendo il numero dei rappresentanti si rimpicciolisca la casta. Ma sarebbe vero proprio il contrario: si formerebbe una casta più potente perchè più selezionata numericamente, e soprattutto naturalmente direzionata verso le parti più forti della società e dell’elettorato. Come ha spiegato con limpidezza Gianfranco Pasquino su Huffington in questi giorni, la battaglia per essere eletti diventerà più dura e quindi anche più cara: è ovvio che se si disbosca il numero dei posti per cui competere la radicalità della competizione aumenterà e le armi usate dovranno essere più letali. Le armi sono in questo caso i denari – privati— che necessiteranno per farsi eleggere, con evidente squilibrio dell’eguaglianza di opportunità politica, con una esposizione evidente ai rischi di una virata oligarchica dell’intero sistema politico.

I forti vinceranno con più agio in una gara con minor numero di concorrenti. Solo gli sprovveduti possono credere che il taglio dei parlamentari sia la strada vincente per abbattere la casta. Vero è il contrario: la casta dei notabili che si formerà sarà ancora più autoreferenziale, famelica e corrotta. La logica del numero è fatale: nella democrazia come nel suo opposto, l’oligarchia. L’identificazione dei mali del paese con la "casta" ha una storia lunga quanto quella dell’antipolitica e dell’antipartitismo. Oggi, essa è la linfa del populismo. Proprio perchè la democrazia populista ha l’ambizione di sistituirsi alla democrazia dei partiti (definita castale o partitocrazia) l’idea di sfoltire il Parlamento è nel DNA del populismo, che ama forti e nette maggioranze (disdegnando, potendolo, alleanze di governo), esecutivi forti e con pochi ostacoli (e un Parlamento che non serve solo a formare una maggioranza è un ostacolo).

La democrazia parlamentare, che è democrazia fatta di "parti" e di "partiti", si regge su una ragione chiara: la rappresentanza ha bisogno di partiti o gruppi politici, senza i quali essa non è propriamente rappresentanza politica ma delega elettorale a questo o quel notabile o gruppo che dice di rappresentare "il popolo" (idealmente contro le sue parti). Tutti i grandi pensatori democratici, da Schattschneider a Sartori, da Kelsen a Bobbio hanno per questo identificato la democrazia rappresentativa con una democrazia che articola l’opinione in partiti e che struttura la vita parlamentare secondo la più ambia rappresentanza di queste parti, per amorzare il peso degli interessi settoriali. Con un taglio del numero dei parlamentari così drastico si renderà il Parlamento e la politica della rappresentanza una questione veramente per pochi e potenti. Se questo parlamento riuscisse ad approvare una riforma elettorale in senso proporzionale, forse questa deriva oligarchica e castale potrebbe essere se non altro resa più difficile.

Ma non c’è certezza che a ciò si giunga, anche perchè i piccoli partiti o gruppi non sono convinti che sia nel loro interesse scegliere una soglia di sbarramento che forse li penalizzerebbe (e, in aggiunta, alcuni di essi, come i reduci della "rottamazione", sono essi stessi sostenitori di una virata in senso esecutivista del sistema politico, poco amici della democrazia parlamentare).

Insomma troppi "se" e troppe condizionalità. E una riforma costituzionale così sospesa è brutta sul nascere. Se davvero vogliamo contenere il potere degli eletti, non c’è miglior strategia che volere che il loro numero non sia così piccolo. Se davvero vogliamo che la rappresentanza valga per noi cittadini, non possiamo volere che per eleggere un rappresentante occorra quasi il doppio dei voti che servono oggi. Perchè dovremmo votare contro il nostro interesse?

NADIA URBINATI, PROFESSOR OF POLITICAL THEORY, DEPARTMENT OF POLITICAL SCIENCE, COLUMBIA UNIVERSITY