È stato il motto delle Olimpiadi: Citius!, Altius!, Fortius!, che in latino significa "più veloce!, più in alto!, più forte!". Ma é stato anche quanto abbiamo tutti predicato in questa postmodernitá negli ultimi 20 anni. Per ottener un buon lavoro, per distinguerci dagli altri, per raggiungere insomma un traguardo ambito, dovevamo correre di piú, elevare l’asticella delle nostre mete, dimostrare di essere i piú forti. La cultura olimpica é diventata una forma di esistenza, da cui se ne esce nello stesso modo che negli eventi agonistici: nella vita o si vince o si perde.

E chi perde é dimenticato: una tra le piú terribile parole inglesi é "loser", cioé "perdente" in italiano e (altra terribile parola) "fracasado" in spagnolo. In epoca di emergenza sanitaria, la vita si prende la rivincita, perché tutti - chi piú, chi meno - siamo perdenti in tempi di coronavirus. L’affanno per la rapiditá e il successo si sgretolano davanti alla possibilitá di perdere tutto quanto avevamo. La domanda che tutti fanno e nessuno sa risponder é fino a quando il Covid 19 o le sue varianti freneranno la ripresa delle nostre societá nazionali. A mio modo di vedere, vi é una strana, ma implacabile morale dietro tutta questa storia del virus. Ricordate la favola della cicala e la formica? La cicala si divertiva a tutto spiano in estate, finché sopraggiunse l’inverno e la fame.

La pandemia ha messo fine ad una fase storica dell’umanitá, segnata dal consumo sfrenato, la volatilitá dei valori, la liquiditá dell’amore (como dice il celebre filosofo polacco Bauman). Su questa linea - e con il merito di aver pronosticato queste trasformazioni in un celebre libro del 2012, "La societá della stanchezza"- il filosofo sudcoreano residente in Germania Byung-Chul Han presenta una visione alternativa della società, in cui la corsa verso il successo solo ci fa scoprire catene poco evidenti ma molto forti, che ci logorano fino allo sfinimento. Questa nuova societá - lui si riferisce alla societá pre-COVID 19 - é "la societá della stanchezza", caratterizzata dal fattto che l’ossessiva competizione e voglia di successo dell’uomo moderno produce disturbi di natura depressiva e nevrotica, accompagnati da una generale incapacità di gestire la nostra esperienza di vita.

"Ci è toccato vivere nella società del "Yes, you can" - dice la psicologa Delgado Suarez - , una società che afferma che tutti possiamo arrivare dove vogliamo solo sforzandoci. Viviamo in un’epoca in cui la psicologia positiva è diventata popolare e distorta, limitandosi ad una serie di frasi motivazionali senza molta sostanza, che trasmettono un messaggio chiaro: "Tu puoi!". Questa ipermotivazione sociale, che dovrebbe portarci al successo, diventa in realtà un boomerang che colpisce con tutte le sue forze la nostra sensibilitá e i nostri stati d’animo, che incapaci di generare successo, sprofondano in neurosi diverse. Mentre nel passato l’evoluzione delle societá era legata all’imperativitá e al controllo dei governi, adesso - nella societá dell’obbligo (como dice Byung-Chul Han), ci insegnano l’auto-sfruttamento di noi stessi.

"In questa società - dice -, ognuno porta con sé il suo campo di lavori forzati, perché siamo diventati schiavi della sovrapproduzione, il super-rendimento (lavorativo, ludico e sessuale) o la supercomunicazione". Come uscirne? Forse sará proprio il COVID 19 a insegnarci come correre meno, guardare con piú serenitá la natura che ci circonda, fare una pausa nell’insensata maratona, che ha segnato fino a pochi mesi fa la nostra vita. Come dirlo? Direi che il COVID ovviamente é un male, ma ricorderei che "non tutto il male vien per nuocere".

JUAN RASO